La resa dei conti fra i partiti è cominciata, ma non è uguale per tutti.
Se tra chi rivendica la vittoria del 12 giugno la polemica si concentra su chi dovrà guidare l’alleanza nel centrodestra in vista delle politiche 2023 o, nel caso del centrosinistra, con chi allargare il “campo largo”, tra gli sconfitti del M5S non siamo alle scosse di assestamento, bensì al vero e proprio terremoto. Che potrebbe sfociare nella scissione tra l’ala governativa incarnata dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e quella più incline all’intransigenza delle origini interpretata dal leader Giuseppe Conte. E martedì si vota alla Camera sull’informativa del presidente del Consiglio, Mario Draghi, riguardante l’Ucraina: che faranno i pentastellati sulla questione, per molti di loro indigeribile, dell’invio delle armi alla nazione aggredita, perché possa difendersi?
Ad aprire lo scontro per un risultato amministrativo che ha reso marginale il ruolo politico dell’ancora principale partito in Parlamento, è stato Di Maio. Che contesta a tutto campo la strategia di Conte. “Non possiamo stare al governo e, per imitare Salvini, attaccarlo un giorno sì e uno no”, ammonisce. Poi parla del peggior risultato finora ottenuto dal M5S e definisce Conte, senza neppure degnarlo di una citazione per nome, “ambiguo” in politica estera e “autoreferenziale”. “Temo che questa forza politica rischi di diventare una forza politica dell’odio”, la sua durissima conclusione.
Conte ribatte precisando che non prende lezioni di democrazia interna da Di Maio (“quando il leader era lui come organismo c’era solo il capo politico”), e bollando come stupidaggine l’accusa d’essere anti-atlantista e come offensivo il paragone con Salvini. In ballo c’è anche la regola del limite dei due mandati per gli eletti cinque stelle, “che deve restare”, mette in chiaro Beppe Grillo. Il fondatore scende nella contesa e, in apparenza, fa da sponda a Conte.
A fronte del duello senza precedenti per tono e contenuto, passa in secondo piano la competizione già iniziata fra Giorgia Meloni e Matteo Salvini per la leadership del centrodestra. Così come il tormento del Pd sulla scelta delle future alleanze: con i pentastellati crollati e divisi o con i riformisti di Carlo Calenda e Matteo Renzi? Che però pongono un veto sul M5S e coltivano una posizione autonoma da terzo polo.
Ma lo scenario rischia di essere sconvolto dal conflitto stellare.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi