Di tutti gli orrori contemporanei, quello dei “desaparecidos”, gli scomparsi negli anni dell’ultima dittatura in Argentina (1976/1983), è l’unico inafferrabile. Lager, gulag, foibe, pulizie etniche, genocidi: ovunque, dalla Germania alla Russia, dall’ex Jugoslavia all’Iraq, al Ruanda, c’è oggi la possibilità financo di conoscere i luoghi in cui gli eccidi sono stati commessi. Sono crimini firmati per sempre. Ma come si fa a cogliere l’attimo di quel boia in divisa o in borghese, che prende lo studente, gli benda gli occhi (o forse neppure), lo fa salire sull’aereo e poi lo butta giù nel Río de la Plata coi blocchi di cemento ai piedi? Nessuna telecamera potrà mai trasmettere la disperazione del morituro. Nessun cartello potrà indicare “qui, è successo qui”. Nessun libro potrà disegnare l’onda di quel fiume marrone e largo, il più largo del mondo, che s’è trascinato via l’innocente: il buio non si lascia fotografare.
Perciò è un dono all’universo la testimonianza delle mamme degli uccisi, trentamila uccisi, e in prevalenza giovani. Marciando ogni giovedì che Dio manda sulla Terra davanti alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale, queste donne sono riuscite, da sole, a tramandare la memoria che non c’è. Ammoniscono: mai finisca la ricerca, fosse anche di una fossa con i poveri resti di quel che resta.
Hanno scelto un luogo, la piazza più evocativa di Buenos Aires, per ricordare il delitto senza luogo. Arrivano di pomeriggio con il loro camioncino, un tavolino da campeggio, qualche sedia e dei fazzoletti che stringono al collo o mettono in testa, perché si legga bene la scritta: “Madre de Plaza de Mayo”. Sistemano quel tutto e poi cominciano a camminare intorno alla piramide che sorge nella piazza, e in senso anti-orario. Fanno un giro per ogni anno a partire dal primo in cui iniziarono la protesta, perciò più di venti giri, ormai. E sempre seguendo le orme dei fazzoletti bianchi dipinti per terra. Subito dopo si spostano verso il monumento dedicato al patriota Manuel Belgrano a cavallo, che è antistante alla Casa Rosada: e lì raccontano a voce alta le loro storie senza fine.
Basta guardarle, queste signore, mamme o nonne, per capire che il dolore non ha colore. Anche i capelli hanno smesso di tingersi. Nulla è più finto quando si perdono, e in quel modo, figli e nipoti. E sol perché sospettati di terrorismo; sospettati, neppure “imputati”, tantomeno “condannati” da un tribunale, e men che meno condannati a morte. “Ai delitti dei terroristi -ha accertato lo storico e impressionante rapporto “Nunca más”, mai più, redatto dalla Commissione Nazionale sulla scomparsa delle persone-, le Forze Armate hanno risposto con un terrorismo infinitamente peggiore di quello combattuto, perché dal 24 marzo del 1976 hanno disposto del potere e dell’impunità dello Stato assoluto, sequestrando, torturando e assassinando migliaia di esseri umani”. Di più: nella stragrande maggioranza dei casi le vittime sono risultate “innocenti di terrorismo”.
Ma chi erano i desaparecidos? Per un terzo lavoratori e donne, prelevati dalle loro case più di notte che di giorno, e soprattutto nell’anno ’76. Nel dieci per cento dei casi si è trattato di ragazzi tra i sedici e i vent’anni, e nel novanta per cento di cittadini dagli zero ai quarant’anni: un’intera generazione falciata. Il tre per cento delle donne scomparse erano donne incinta. “Di alcuni dei metodi utilizzati non si conoscono precedenti in altre parti del mondo. Esistono varie denunce su bambini e anziani torturati assieme a un familiare, affinché quest’ultimo propiziasse l’informazione richiesta dai suoi sequestratori”.
A guidare l’associazione delle madri che ancora reclamano giustizia, e che non dimenticano, è Estela Carlotto, dall’evidente origine italiana. Presiede anche la Commissione per la Memoria.
Il 22 settembre del 2002 sconosciuti hanno sparato alla sua casa per intimidirla. Ma a Plaza de Mayo nulla è cambiato, il giovedì.
(Tratto dal mio libro “Se il mondo finisce qui”, Ideazione Editrice, Roma, 2004)