La parabola europea fotografa bene lo stato di salute del Pd che, dopo la scoppola elettorale del 4 marzo, resta pur sempre il principale partito dell’opposizione. Se l’ultimo voto per Strasburgo, nella primavera del 2014, aveva incoronato Matteo Renzi al massimo del consenso (il partito dell’allora presidente del Consiglio raggiunse il 40,8 per cento), il prossimo appuntamento del 2019 si prospetta come il primo tentativo di rilancio senza Matteo Renzi. Questo ha ieri deciso l’Assemblea nazionale che, in realtà, poco ha deciso. Al punto d’aver lasciato al suo posto il reggente, formalmente trasformato in segretario a tempo determinato, Maurizio Martina. Il quale ha così aperto, di fatto o forse solo in teoria, l’era nuova con un vecchio patto di non belligeranza fra tutte le correnti. Una sorta di dopo-Renzi, non però un senza-Renzi. L’ex leader, al contrario, non rinuncia a rivendicare tutte le sue scelte politiche (in particolare il “no” a governi coi pentastellati) e ammonisce: “Non vado via”.
Non potrebbero essere più diversi i due segretari in transitoria successione (anche in attesa di accertare le forze del candidato Nicola Zingaretti). Si va dalla personalità straboccante di Matteo, che ha definito i Cinque Stelle “la vecchia destra, una corrente della Lega” e ha sfidato gli avversari interni (“perderete ancora”), al misuratissimo Maurizio, l’uomo senza carisma che parla piano e sembra lo specchio di un partito in mezzo al guado. Perché, aspettando di vedere qual è la bussola del Pd che intende rinnovarsi, la sua classe dirigente intanto rimanda il regolamento di conti al congresso in autunno e alle primarie alla vigilia delle europee. Quasi che il partito preferisse rimanere in attesa degli autogol del governo penta-leghista, dalla contestata politica sull’immigrazione all’osteggiato decreto-dignità.
Ma aspettare sulla riva del fiume le disavventure della maggioranza, rischia di essere una scommessa azzardata e a tempi lunghi. E rischia di lasciare, paradossalmente, a Luigi Di Maio il compito di contrastare lui l’egemone Matteo Salvini. Controllare i controllori: un ruolo che invece spetterebbe a un Pd rigenerato nelle idee e nelle iniziative, anziché dilaniato, ancora, fra i suoi differenti e tra loro arrabbiati esponenti in prima fila. Compreso il molto evocato Zingaretti, che accusa Renzi di un grande limite, “non ascolta mai”. Ma ascoltare l’Italia è la nuova sfida per tutto il Pd, se vuole tornare a farsi sentire.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi