C’è un uomo che, quando va per il mondo, si rivolge alla gente d’ogni lingua e terra parlando in italiano. No, non è Andrea Bocelli: lui canta, non parla. Gli basta intonare “Con te, partirò…” e le platee subito s’emozionano, perché l’arte del bel canto, che è musica italiana da tre secoli, ha un suo fascino anche nel pop.
No, non è neanche Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica pur “italiana” che alle Nazioni Unite, la finestra sul mondo, s’esprime in inglese. Ed è purtroppo in buona compagnia, perché come lui e prima di lui hanno fatto molti altri politici. L’ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato, per esempio. O l’ex ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, che però ricorreva al francese: c’est plus facile, è più facile, come ricorda quella nota pubblicità.
Il massimo l’ha tuttavia toccato Mario Monti. Il quale anche lui, nel pieno esercizio delle sue funzioni istituzionali, cioè mentre era a capo del governo italiano, è arrivato a parlare in inglese in un importante convegno pubblico, ossia rivolto soprattutto agli italiani, a Firenze. Proprio la città di Dante Alighieri, il poeta che è considerato il padre della millenaria lingua italiana. I giornalisti italiani che lo seguivano dovevano, increduli, tradurre in italiano quel che Monti stava loro dicendo in inglese. Per poterlo raccontare ai lettori e telespettatori italiani. Povera Firenze, amore mio, diventata una sorta di Florence, I love you per provincialismo. Come Totò quando diceva “noi siamo uomini di mondo”, sol perché aveva fatto il militare a Cuneo.
Ma allora chi è quell’interprete d’italiano che non è Bocelli, perché non canta? Che non è Napolitano, perché non fa politica? Ma che, a differenza di Napolitano e di tanti eccellentissimi rappresentanti della Repubblica Italiana che rinunciano alla lingua del loro popolo quando s’esprimono in contesti internazionali a nome del loro popolo, chi è, dunque, quella persona che non segue la corrente, ma che parla italiano ovunque e comunque? Eccolo. “La pace non si può comperare”, ha ammonito, in italiano, davanti a quarantamila cittadini in uno stadio di Amman, Giordania. E alle autorità palestinesi, che altrove l’ascoltavano il giorno dopo, ha augurato “un felice esodo verso la pace”, proprio così, in italiano. E continuando la sua visita in Israele, al memoriale dell’Olocausto Yad Vashem s’è chiesto: “Adamo dove sei? Dove sei uomo? Dove sei finito?”, invocando ed evocando in lingua italiana un dolore universale.
Tre giorni in tre luoghi diversi e con interlocutori di lingue diverse, lo scorso mese di maggio. Eppure, papa Francesco ha scolpito in italiano parole belle e chiare. Da uomo “venuto quasi dalla fine del mondo”, come ricordò sempre e ancora nella lingua di Dante il giorno dell’elezione a San Pietro, 13 marzo 2013, l’argentino Mario Bergoglio sa perfettamente l’”effetto che fa” l’italiano all’universo che ascolta e l’ascolta. E’ la lingua più musicale di tutte, come disse il tenore spagnolo José Carreras. Con quell’altalena di dolci vocali che salgono e scendono alla fine di ogni parola, l’italiano suona come un gioco. E’ una lingua allegra, come allegro è il Papa quando abbraccia forte la sua gente: abbracciare è un atto che non si può fingere. E lui, sudamericano verace, non finge. Abbraccia, perciò.
L’italiano è una lingua che ispira umanità, perché non si presenta aggressiva -né alcuno l’ha mai imposta con eserciti, poteri o denari: l’italiano si sceglie-, e allora Francesco la parla perché le sue parole esprimono al meglio il suo pensiero “umano”. La parla, inoltre, con quella soave cadenza della gente di qua e di là del Río de la Plata, il fiume più largo del mondo che divide e unisce l’Argentina e l’Uruguay. Una cadenza tipica, unica e riconoscibile rispetto a tutte le parlate degli altri popoli latino-americani.
Armato di questo buon italiano, il Papa non ha paura di usarlo come una clava di pace ovunque. Persino in Corea, dove davanti a un milione di cittadini, ossia coreani, ha detto messa e s’è rivolto loro in italiano. In Corea! Ma quel che ha fatto nella visita di agosto nell’Asia lontana, l’ha poi ripetuto in settembre nella vicina Europa: Repubblica d’Albania e di nuovo Francesco s’esprime in italiano nella messa davanti ai fedeli e alle autorità. La lingua del pane al pane, come piace a un Papa allergico ai giri di parole, ai bizantinismi, al dire e non dire. Invece con l’italiano lui inchioda le sue idee e l’attenzione di chi l’ascolta. Oltre la stessa Chiesa cattolica in ogni continente.
Del resto, il suo esordio da Papa fu accompagnato da un saluto che, per l’espressione usata, più italiano e signorile, e affettuoso non poteva essere: “Fratelli e sorelle, buonasera!”. E quando il “vescovo di Roma” si rivolge all’universo nei tradizionali appuntamenti “urbi et orbi” seguiti da più di settanta Paesi collegati in mondovisione, o durante la Via Crucis, lo fa in una sola lingua che riassume l’arcobaleno delle tante belle lingue: la lingua italiana.
Solo un argentino venuto da lontano e fiero delle sue origini piemontesi, poteva capire tanto bene il valore e lo splendore dell’italiano: l’ha messo al centro del mondo, perché è un tesoro dell’umanità.
Pubblicato su Il Mio Papa