Mancano solo l’asfalto e il collaudo finale dell’intera struttura, che sorge unendo il futuro alla memoria. Lungo 1.067 metri che poggiano su 18 piloni a sostegno di 24 mila tonnellata d’acciaio, il nuovo viadotto Genova-San Giorgio è coronato da 43 lampioni, uno per ogni vittima del ponte Morandi crollato il 14 agosto di due anni fa. Per la prima volta un’auto ha ieri attraversato l’opera della svolta, “alle ore 9.57 del mattino”, come già registrano le cronache che raccontano la storia. L’ennesima storia di un’Italia che, in silenzio e in meno di un anno di lavoro giorno e notte sospeso solo a Natale, si prepara a inaugurare, a fine luglio, un’impresa che neppure il coronavirus, la tragedia nella tragedia, ha potuto confinare. Non l’ha fermata la burocrazia messa all’angolo. Non l’ha bloccata la politica stavolta concorde da destra a sinistra. Non l’hanno contesa le aziende Salini Impregilo e Fincantieri, che si sono consorziate per realizzare insieme il progetto che l’architetto, Renzo Piano, ha donato alla sua città: nel momento dell’emergenza, tutto ha funzionato come dovrebbe funzionare sempre. La straordinarietà in realtà ha dimostrato la normalità di un Paese che, non per caso, fa parte del G7 ed è il secondo esportatore in Europa con un’economia solida almeno quanto il suo patrimonio artistico-culturale unico al mondo.
E allora viene da chiedersi: perché non può diventare regola, l’eccezione genovese? Che cosa ci vuole per valorizzare sempre -e non solo nelle circostanze drammatiche o al novantesimo-, il talento italiano e universale? Che cosa impedisce alla nostra riconosciuta intraprendenza in patria e all’estero di “ricostruire” il Paese? Non ultimo: perché è così difficile pretendere “buona politica” dalle istituzioni, cioè gioco di squadra nell’interesse nazionale, anziché l’eterna contrapposizione fra inconcludenti? Davanti all’esempio del nuovo ponte innalzato a tempo di primato (“un grande vascello bianco che attraversa la vallata”, come l’ha evocato Renzo Piano), nessuno può condannarci al dolce, anzi, all’amaro far niente.
Certo, adesso tutti saltano sul carro del “modello Genova”, come già l’hanno ribattezzato. Ma, per replicare ovunque il metodo vincente dell’eccellenza e della laboriosità, gli auspici non bastano. Non c’è ripartenza senza il fare, che è il faro di ogni rinascimento.
Ponti e non muri, tra l’altro, perché anche i simboli rafforzano i sogni.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi