Non si chiamava Jorge Luis, ma Jorge Francisco Isidoro Luis Borges. Era nato nel centro di Buenos Aires, ma è sepolto dall’altra parte dell’Oceano, nella “periferica” Ginevra: viaggio di sola andata dalla disordinata patria d’origine alla puntuale Svizzera dei cu-cù.
E’ diventato immortale, e questo l’aveva in qualche modo previsto, il cieco che vedeva lontano: “Di quale altra cosa si può minacciare, che non sia di morte? L’interessante, l’originale sarebbe che qualcuno minacciasse uno con l’immortalità”. Così lo ricorda l’associazione che è sorta in via Tucumán 840 per perpetrarne la memoria.
Il luogo non poteva essere altro. Fu la casa natale di Borges, e dei genitori di Borges e dei genitori della madre di Borges. Una radice tra due secoli. La casa si trova fra via Suipacha e via Esmeralda; forse non evocano poesia, quei nomi?
Eppure Borges rimane l’enigma letterario del Continente. Uno da premio Nobel, se non fosse stato così politicamente scorretto. All’epoca peronista, il più grande scrittore argentino fu nominato ispettore comunale di polli, galline e conigli. Per dispetto i populisti vollero umiliare l’aristocratico ormai adulto. Nell’epoca progressista del suo lungo tempo (è morto, se è davvero morto, a ottantasei anni, e nell’86: vero che qualcosa non quadra?), quel vecchio reazionario non poteva suscitare simpatia alcuna nella a lui cara ma per lui ingrata Europa del pensiero Vip.
Amava la Divina Commedia, ma la sua istitutrice d’infanzia non fu Beatrice; fu inglese e si chiamava Miss Tink. “Georgie” l’inevitabile soprannome.
Disse una volta: “Le mie notti sono piene di Virgilio”.
Confidò (a Domenico Porzio, Tutte le Opere, Mondadori, Milano, 1985): “I lettori di lingua spagnola devono rassegnarsi a leggere Dante nell’originale. Le due lingue sono troppo affini”.
Scrisse (in spagnolo) in occasione della visita del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, in Argentina nel 1961, a cent’anni dall’unità politica d’Italia: “Carlyle voleva ridurre la complicata storia del mondo alle biografie degli eroi. Di fatto, ogni nazione e ciascuna delle straordinarie avventure della nostra specie finisce col riassumersi in un uomo; nel caso dell’Italia non ci sono dubbi sulla figura che la rappresenta. Pensare all’Italia è pensare a Dante. In questa equivalenza credo di avvertire una singolare felicità, che trascende il fatto che Dante sia il primo poeta d’Italia e forse il primo poeta del mondo. Quali elementi integrano quella che convenzionalmente chiamiamo la cultura dell’Occidente? Due elementi molto diversi: il pensiero greco e la fede cristiana, o se si vuole, Israele e Atene. In ciascuno di noi confluiscono , in modo indecifrabile e fatale, questi antichi fiumi. Nesuno ignora che questa confluenza, che è l’avvenimento centrale della storia umana, è opera di Roma. In Roma si riconciliano e si coniugano la passione dialettica del greco e la passione morale dell’ebreo; il monumento estetico di questa unione delle due direzioni dello spirito si chiama “Divina Commedia”. Dio e Virgilio, la divinità una e trina degli scolastici e il massimo poeta latino, trapassano di luce il poema. Questa armonia dell’antica bellezza e della nuova fede è una delle molteplici ragioni che fanno di Dante il poeta simbolo dell’Italia, e perciò, di tutto l’Occidente. La circostanza secondaria che le parole di questo omaggio, scritte in un continente lontano appartengano a un dialetto tardivo della lingua di Cesare e di Virgilio è una ulteriore prova di questa onnipresenza di Roma. Si suole dire che tutte le strade portano ad essa; sarebbe meglio dire che non ha fine e che sotto qualunque latitudine siamo a Roma” (Giorgio Otranto, “Italia e Argentina; un rapporto antico anzi nuovo”, Università degli Studi di Bari, Cacucci Editore, Bari 2003).
Da ragazzo conobbe Parigi e visse a Siviglia, però lesse Schopenhauer (in tedesco): “Il mio destino è la lingua spagnola, il bronzo di Francisco de Quevedo, ma nella lenta notte camminata mi esaltano altre musiche più intime. Una mi è stata data dal sangue -oh voce di Shakespeare e della Scrittura!-, altre dal caso, che è generoso. Ma te, dolce lingua di Germania, ti ho scelta io e cercata, solitario. Attraverso veglie e grammatiche, la giungla delle declinazioni, il dizionario, che non c’entra mai la sfumatura precisa, mi ci sono avvicinato…”. (“Alla lingua tedesca”, sempre da “Tutte le opere” di Mondadori). E s’inebriò, il giovane Borges, per la Rivoluzione russa. A chi in tarda età gli domandava perché apparisse tanto distante dalla sua terra natale, quel sapiente rispondeva: “Io non mi sento argentino, perché non scorre sangue italiano nelle mie vene”. Divertito o dispiaciuto? Irriverente. Perché in realtà Borges adorava Buenos Aires e scriveva del “coraggioso esilio” come della forma forse sublime del destino argentino.
Se i nonni si dividono fra chi emana fascino e chi affetto, quel vecchio irregolare trasmette solo poesia, che è la carezza più grande.
Borges è il mistero stesso dell’Argentina.
(Tratto dal mio libro “Se il mondo finisce qui”, Ideazione Editrice, Roma, 2004)