Ha cantato novanta opere, ma ha pure duettato con Bocelli, Morandi, Dalla e tanti altri artisti al di fuori dalla lirica. Per il soprano Cecilia Gasdia, nata a Verona quarantacinque anni fa, il bel canto è cominciato alla Scala -lei ventenne- ed è proseguito attraverso i teatri di tutto il mondo. Rossini, Verdi, Puccini e tanti ruoli da protagonista con i maggiori direttori d’orchestra, da von Karajan a Muti, da Abbado a Kleiber.
Che cosa si può dire cantando, che non si può dire parlando?
“Si può dire tutto, in particolare con l’opera e le sue frasi spesso astruse. Non userei mai o quasi espressioni operistiche nella vita normale. E’ un mondo mitologico con un italiano arcaico e un po’ poetico. Solo le opere più vicine, magari quelle di Puccini, possono apparire attuali. Però anche lì ci sono tanti termini ormai caduti in disuso. Ma è un gergo comunque simpatico”.
Sta dicendo che il fascino dell’opera deriva dalla sua inattualità, un canto fuori moda e quindi “fuori dal coro”?
“Certo. Noi tutti sappiamo che “La Traviata” di Verdi fu un insuccesso proprio perché in quell’epoca metteva in scena qualcosa che apparteneva a quel periodo. Invece il pubblico vuole sempre assistere a qualcosa di diverso rispetto al suo tempo. Forse adesso i gusti sono un po’ cambiati. Ma a me non piacerebbe vedere un’opera ambientata nel 2006. Datemi il Settecento, il Seicento, il tempo del Nabucco: è più divertente, fantastico e mitico”.
Quando ha capito che la sua voce sarebbe stata l’arma segreta?
“Ero appena uscita dai banchi della maturità classica e ho incontrato un destino folgorante, trovandomi a girare per il mondo senza averlo voluto. Io non desideravo fare la cantante lirica. Tra l’altro, cominciai a studiare a diciassette anni e mezzo, senza coltivare velleità né speranze di fare ciò che avrei fatto. Piuttosto, amavo l’idea di diventare pilota d’aereo…”.
Da bambina cantava?
“Ho sempre cantato, questo sì. Cantavo canzonette. E lo facevo bene. “Una lacrima sul viso” dev’essere stata la mia prima canzone. Come pure “Amore ritorna, le colline sono in fiore”. Ero proprio piccolina: sono del Sessanta. Un giorno mamma portò me e mia sorella Elena -che aveva due anni e mezzo- a fare l’esame per entrare allo Zecchino d’oro, nel ’67. Non ci presero. La motivazione? Eravamo troppo brave. Anche se a noi dissero che io ero troppo grande ed Elena troppo piccola….Tenga presente che io avevo sette anni, ma studiavo pianoforte da due”.
Soprano si nasce, si diventa o si diventa solo se si è nati?
“Cantante lirico mi sa che si nasce: ho questo vago sospetto. Poi non è detto che uno lo voglia diventare oppure che si renda conto di esserlo. Per la verità ho conosciuto anche qualcuno che fortemente “voleva” fare il cantante lirico, senza tuttavia avere determinate doti di base, al di là della voce e della musicalità. E allora è difficile fare la carriera”.
Talento a parte, quali sono i sacrifici richiesti per arrivare lontano?
“Il cantante lirico è come un atleta: deve allenarsi senza sosta. E’ condannato, diciamo così, per tutta la vita all’esercizio come se fosse un ballerino o un pianista. Anche se di norma questo lavoro si ama. Forse l’atleta ha un futuro più breve. Però anche la voce può durare molti anni oppure no. Probabilmente i muscoli delle corde vocali durano di più rispetto a quelli del grande sforzo dello sci, per esempio. Eppure, anche un cantante a quarant’anni non può avere la stessa prestazione che a venti. L’usura vocale consente di fare certe cose perfino meglio, grazie all’esperienza; ma altre cose non si fanno più. Specialmente dopo vent’anni di uso continuato, perché noi cantiamo ore e ore”.
Canta anche “fuori orario”, tipo a casa o sotto la doccia?
“Sotto la doccia no. Spesso canto cucinando. E da sola: non mi ascolta nessuno. Una volta cantavo di più. In compenso mia figlia Anastasia lo fa anche dieci ore al giorno. Ha sedici anni e una voce stupenda: è proprio una cinciallegra”.
Cecilia Gasdia è partita tardi o è arrivata presto?
“Direi che l’età giusta è sui sedici anni; i maschi un pochino più tardi. Ma la Callas a quindici anni cantava già. Forse io non sono arrivata prestissimo, perché ci sono arrivata per caso. Però ho esordito molto giovane. Sono diventata, diciamo, famosa a vent’anni. Ne avevo uno di più al mio debutto alla Scala. Credo d’essere stata la più giovane degli ultimi settant’anni, se non mi batte Renata Scotto”.
Qual è la sensazione che le è rimasta legata all’evento?
“Il divertimento. Ero una pazza, ho preso tutto con molta goliardia. Senza aver desiderato fare la cantante lirica, mi ritrovavo catapultata sul palcoscenico della Scala! E così non avevo niente da perdere né da guadagnare. E poi il pubblico coi giovani, specialmente in una sostituzione -e di Montserrat Caballé- è abbastanza indulgente. Cantavo l’”Anna Bolena” di Donizetti, un’operona lunga tre ore e mezzo. E abbastanza fuori repertorio. Non avevo paura alla prima recita. Ma alla seconda ero terrorizzata, perché m’ero potuta rendere conto, il giorno precedente, di quanto fosse stata dura e lunga l’opera. E mi chiedevo: stavolta arriverò alla fine?”.
Naturalmente vi arrivò…
“Sì, e fu un trionfo. Conservo la registrazione. Devo dire che ho cantato molto bene. E la critica fu unanime nell’approvazione. D’altronde, quello fu il momento giusto. Avevo appena vinto il concorso-Callas. E il pubblico vedeva di buon occhio questa “bambina” alle prime armi. Mi hanno un po’ adottato”.
I fischi fanno solo male o a volte sono come le sculacciate dei genitori, cioè servono?
“Lì per lì fanno malino, eh? Però servono. Io ho preso una fischiata solenne alla Scala l’anno successivo al mio esordio. Fu col “Gianni Schicchi” di Puccini. La mia parte durava sette minuti: “O mio babbino caro…”. Io non stavo molto bene, ma “o mio babbino caro” lo risolvi anche se sei moribondo. Invece alla fine mi fischiarono. Forse non ero proprio da fischi, però nel fondo quasi condividevo la protesta, perché non mi ero piaciuta. Poi ho preso una -meritatissima- fischiata a Napoli. “Vai a casa”, mi gridavano. E a Firenze ricordo una stecca…”.
L’applauso più bello?
“Il primo. Fu appunto alla Scala, quando terminai di cantare la pazzia di Anna Bolena. Un secondo di silenzio e poi l’ovazione”
Entriamo nei teatri italiani a cui lei si sente più legata. La Scala innanzitutto?
“No. Il primo in assoluto è l’Arena di Verona. Sia perché quella è la mia città, sia perché lì ho mosso tutti i miei passi. Ho fatto la comparsa, ho cantato nel coro per anni. Adoro l’Arena: è un palcoscenico unico. La Scala? Abbastanza, perché mi ha dato grandi soddisfazioni. Quello è un teatro difficile, che ti ama e ti odia. Forse il teatro comunale di Firenze è quello che sento più vicino, perché mi ha offerto grandissime opportunità: “La Traviata” con Carlos Kleiber, il “Rake’s Progress” con Chailly e la regia di Ken Russell. Le cose più belle in assoluto le ho fatte a Firenze”.
Il Regio a che cosa l’associa?
“A Parma non ho cantato tantissimo: “la Bohème”, “la Donna del Lago” di Rossini, il “Falstaff” di Salieri e “Un giorno di Regno” di Verdi, l’unica sua opera che ho fatto. Di solito io vado e vengo di corsa, per i figli o altro. Ma a Parma sempre mi sono fermata, e non solo perché è vicina a Verona. Amo la città e adoro come si mangia. Ho molti amici. E il pubblico è sempre stato molto buono con me. Io cerco di non cantare Verdi da quelle parti…Anche perché io non sono una cantante verdiana. Comunque l’ultima mia presenza è di un anno e mezzo fa in un concerto molto carino in parte d’opera e con la Banda dell’Aeronautica: tutte arie d’opera”.
I Maestri con cui s’è trovata meglio, e quelli con cui ha invece litigato?
“Io ho avuto la fortuna di suonare con i più grandi direttori d’orchestra del mondo. A cominciare da von Karajan, Carlos Kleiber, Claudio Abbado, Riccardo Muti ovviamente. Ma non voglio fare una lista. Credo d’aver cantato con tutti tranne che con Leonard Bernstein, perché è morto poco prima”.
Chi è stato il fuoriclasse?
“Non vorrei che altri s’offendessero, ma per me è stato Carlos Kleiber. Per una serie di motivi che ci vorrebbe un libro per spiegare. Quello a cui sono più affezionato forse è Abbado. Una bacchetta strepitosa, una mano magica. E’ una persona di poche parole, senza fronzoli, un lavoratore. Fra alterne vicende d’amore e meno amore ho cantato moltissimo anche con Riccardo Muti. Gli devo molto. In parte è stato lui a iniziare la mia carriera. Mi fece debuttare a Firenze nell’81 dopo aver fatto un’audizione a Napoli con lui. E’ un uomo un po’ difficile, che alterna momenti di grande simpatia a dei momenti non facili per i cantanti; e non mi riferisco particolarmente a me stessa”.
Verdi, Puccini, Rossini: a parte la voce, per chi batte il suo cuore?
“Io adoro Puccini. Rossini rappresenta la tecnica dei primi Ottocento, del vero cantante “agile”. Verdi lo sappiamo: la grande vocalità. Le prime opere hanno uno stile più antico, quelle finali sono stupende ma hanno un tipo di vocalità che non è la mia vocalità di natura: ho cantato solo undici delle sue ventisette opere. E quindici delle oltre cinquanta di Rossini. Quest’ultimo è stato il mio grande amore, tant’è che tutti mi chiamano “la rossiniana”. Però il mio cuore batte per Puccini. Lui ha scritto poche opere e io non le posso cantare tutte, perché alcune sono troppo drammatiche per me. In un certo senso lo sento persino moderno: mentre canti, avviene l’azione. Di Puccini potresti prendere il testo di un’opera e recitarlo a teatro”.
All’estero dove ha trovato migliore accoglienza, e dove maggiore freddezza?
“Calore dappertutto. Forse i teatri in Germania sono stati i più freddi. Mentre in America, in Giappone o nello stesso “Opéra” di Parigi sono stata molto apprezzata e coccolata”.
Che cos’è il “bel canto” per il mondo?
“Paradossalmente qualcosa che è quasi più amato nel mondo che in Italia. Negli Stati Uniti ci sono teatri, naturalmente privati, che sfornano 350 serate all’anno. Rimanendo nelle spese. Con quattro o cinquemila spettatori alla volta”.
Ma il momento della tremarella c’è ancora o dopo tanti anni salire sul palcoscenico è come salire sul tram?
“C’è, c’è ancora. Le ultime due ore che precedono l’inizio. Oggi è più insofferenza che tremarella. E poi la fifa blu prima di entrare. Ma passa subito. L’esperienza aiuta a dominarla. Eppure, se penso al Requiem di Mozart…L’ho cantato anche di recente. Ma la prima frase, che poi non è difficilissima, mi fa tremare e fa tremare molti cantanti. E’ talmente delicata, è talmente esposta che devi essere perfetto. Ogni volta che s’avvicinano le ultime dieci battute che precedono l’inizio di questa frase, ho il cuore che va a settemila…”.
Forza, ascoltiamola…
“Te decet hymnus, Deus, in Sion…Improvvisamente sparisce l’orchestra e tu devi fare da sola. Devi fare questa cosa purissima, come un angelo”.
Pubblicato il 9 luglio 2006 sulla Gazzetta di Parma