Venti di guerra e fumo di propaganda. Gli ultimi eventi in Medio Oriente (ma noi italiani dovremmo avere lo sguardo rivolto anche al Mediterraneo e alla crisi in Libia) lasciano sperare che lo sfogo di parole e minacce fra Iran e Stati Uniti possa placare la corsa alle armi.
Non era affatto scontato, per esempio, che la preannunciata reazione militare di Teheran all’uccisione del loro osannato generale, Qasem Soleimani, per mano americana, fosse anticipata -secondo la Cnn-, all’odiata controparte Usa. Né era sicuro che i 15 missili lanciati contro le basi americani in Iraq finissero per non colpire alcun soldato (tutti illesi come i nostri militari, radunati in un’area protetta).
Anche a leggere le roboanti dichiarazioni delle autorità e della tv iraniane, che pure parlano di 80 morti, si coglie il fatto che, almeno per ora e salvo sorprese, Teheran non farà seguire altre azioni di guerra.
Anche il discorso non meno trionfalistico di Donald Trump alla nazione lascia intendere che l’America per adesso s’accontenti d’aver eliminato “il maggiore terrorista mondiale”, come l’ha definito il presidente. E pur sottolineando che tutte le opzioni restano aperte, e che mai Teheran potrà avere la bomba atomica, Trump ha annunciato non altri interventi armati, bensì “nuove sanzioni”, augurandosi, inoltre, “un nuovo accordo che faccia prosperare l’Iran”.
Strategie di geopolitica, dunque, ma anche tattica interna: contro Trump è aperto l’impeachment, e lui sa bene che le mosse di politica estera -specie contro l’evocato terrorismo anti-americano-, fanno passare in second’ordine financo gli importanti conflitti casalinghi. Vale pure per il regime iraniano alle prese con le gravi difficoltà economiche di una società ridotta al silenzio: alzare la voce contro i nemici esterni, per sviare l’attenzione (e la tensione) interna.
Intanto, a Roma erano attesi i due fautori di un’altra guerra dalle pericolose conseguenze anche per l’Italia: il premier di Tripoli Fayez Al Serraj e Khalifa Haftar, il generale aggressore. S’è presentato solo il secondo, a conferma di quanto sia fragile ogni trattativa, dopo che un vertice europeo col ministro degli Esteri, Di Maio, a nulla aveva portato (così come un incontro con la Turchia e i Paesi d’area).
Ma, per arrivare a una tregua, è fondamentale che l’Italia continui a far sentire il suo ruolo unico: la Libia è troppo importante per lasciare che siano gli altri a occuparsene male e nei ritagli di tempo.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi