Il conflitto in Medio Oriente si trasforma in guerra politica alle Nazioni Unite. Era prevedibile, ma non per questo risulta meno amaro per l’organizzazione internazionale più rappresentativa di tutti i Paesi nel mondo, nata nell’immediato secondo dopoguerra proprio per mantenere la pace e la sicurezza tra popoli e nazioni. Un compito, con ogni evidenza e non solo per le guerre in corso, che ne ha invece decretato l’impotenza.
Ma adesso l’Onu deve incassare anche l’accusa d’essere una “palude antisemita” dal durissimo intervento del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, all’Assemblea generale.
Un discorso accolto più da contestazioni che non da applausi, con alcune delegazioni che hanno platealmente lasciato l’aula mentre lui iniziava a parlare, e con l’avvilente sensazione di altra impotenza aggiunta all’impotenza: che si può fare, in concreto, per fermare le ostilità almeno pe tre settimane, secondo la proposta euro-americana respinta da Netanyahu?
Purtroppo sul Medio Oriente, più ancora che nel conflitto scatenato da Vladimir Putin contro l’Ucraina, le contrapposizioni ideologiche e geopolitiche prevalgono sui fatti. E il primo fatto richiamato da Netanyahu è che Israele è sotto assedio da chi non ne accetta l’esistenza. Perciò anche quando Israele attacca -dice-, lo fa solo per difendersi.
Hamas, Hezbollah, Houthi sono i nemici dichiarati su sei fronti per lo Stato ebraico. Ma dietro c’è il regime teocratico di Teheran, “che sta cercando di imporre il suo radicalismo ben oltre il Medio Oriente”, avverte il primo ministro. Che all’Iran si rivolge con parole ultimative: “Se ci attaccate, vi colpiremo”.
La grande difficoltà dell’Occidente, che comprende il diritto di Israele di voler estirpare il terrorismo antisemita di cui è rimasto vittima con la strage del 7 ottobre 2023 (un crimine contro l’umanità da molti già dimenticato), è come impedire che la reazione a quell’azione si trasformi, come s’è trasformata, anche in violenza e morte per bambini, donne, anziani e civili innocenti e del tutto estranei al conflitto.
Succede a Gaza con i palestinesi e il rischio ora lo corrono i libanesi. Tant’è che lo stesso Netanyahu precisa di essere in guerra con Hezbollah, non col Libano. Così come sottolinea che Hamas non potrà avere alcun ruolo a Gaza, un domani, e che gli ostaggi israeliani devono tornare a casa, “i vivi e i morti”.
Intanto, la campagna elettorale negli Stati Uniti indebolisce una possibile mediazione internazionale, essendo Donald Trump e Kamala Harris divisi su tutto. Né si contano gli accorati e inascoltati appelli del Papa.
Toccherebbe, dunque, all’Unione europea intervenire con forza diplomatica nella polveriera: parlare soprattutto quando rimbombano le armi. Perché i combattimenti in Medio Oriente e in Ucraina non sono “guerre degli altri” e la pace in Europa non è mai stata messa così in pericolo come oggi, e per tutti. Mentre il Libano brucia.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova