Ci si abitua a tutto. “Un arcobaleno che dura un quarto d’ora, non lo si guarda più”, diceva Goethe. Ma la riflessione del grande scrittore tedesco non vale solo per il bello, come un cielo che annuncia, a sette colori, d’essersi appena liberato dal temporale. Purtroppo l’assuefazione può arrivare anche sull’onda malvagia di una guerra che, giunta al giorno 76 dall’inizio, rischia di far diventare i profughi dall’Ucraina due volte vittime: delle bombe di Putin e della nostra sensibilità che cala. Col trascorrere del tempo e la prospettiva del conflitto lungo, lo slancio iniziale di tutti gli europei, e in particolare dei confinanti polacchi che meriterebbero il Nobel per la pace per aver accolto oltre un milione e mezzo di espatriati nelle loro case senza attendere istruzioni dal loro governo, si sta affievolendo.
Il fenomeno comincia a cogliersi anche in Italia, che pure ospita la più grande e integrata comunità ucraina dell’Europa: quasi 240 mila persone. Un punto di riferimento prezioso per accogliere i connazionali in fuga, e per coordinarsi con le autorità e i tanti cittadini che non si sono tirati indietro nel dare subito una mano, e forte.
Ma, col passare delle settimane, il cuore, per quanto grande, non basta più. Chi arriva ha bisogno di una sistemazione non precaria né transitoria, e i bambini di un inserimento non soltanto scolastico, e tutti d’imparare l’italiano, non parlando quasi mai neanche l’inglese. Le famiglie accoglienti indicano due problemi: l’ostacolo della lingua per poter comunicare non a colpi di traduttori “made in google”, e la mancanza di un sostegno economico da parte delle istituzioni che contribuisca a trasformare l’aiuto volontario dei primi interventi degli italiani in un impegno strutturato e organizzato nel tempo.
In sostanza, siamo al momento del passaggio fra l’abbraccio caloroso delle prime ore, giorni e settimane al legame vero e vitale per consentire ai rifugiati di sentirsi bene nel nuovo Paese d’accoglienza e alle famiglie italiane di farsi carico degli ospiti al meglio, cioè senza aggiungere difficoltà alle difficoltà.
Come evitare che non si esaurisca la spinta propulsiva di sincera amicizia e concreto aiuto per gli ucraini, ecco il nuovo compito a cui tutti -prefetti e Protezione civile, presidenti di Regione e sindaci- sono ora chiamati per dare un senso alla parola “solidarietà”. L’unica abitudine che non fa male.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi