Quando stringiamo la mano a uno sconosciuto, la prima cosa che diciamo di noi, e chiediamo a lui, è il nome: come ci chiamiamo. E’ l’anticamera per raccontare subito chi siamo, da dove veniamo, di che vogliamo conversare. Dopo le stragi di Parigi ad opera del terrorismo di matrice islamica -per continuare a chiamare gli atti e gli attentatori per come essi stessi si sono presentati-, per molti italiani l’idea o la voglia di conoscere lo straniero che gira nel quartiere sta diventando un tabù. Guai, però, a condannare l’umana paura dei tanti, senza prima sforzarsi di capirla. Guai a non comprendere quanti esprimono semplicemente un timore, e spesso lo superano conoscendo l’interlocutore del quale diffidavano. Ecco perché la prospettiva che l’Associazione islamica italiana che forma i suoi imam e le sue guide religiose trasferisca la propria sede nazionale da Roma nel Veronese, nell’evidente intento di migliorare la situazione per tutti, è un evento importante che si può leggere in due modi opposti: con la perplessità di chi non si fida più di niente, figurarsi se può fidarsi di chi professa una religione così lontana dal culto cattolico della nostra prevalente tradizione, e dal valore laico della libertà sancito dalla storia europeo-italiana. Oppure, quest’improvviso trasloco della fede può essere vissuto come un’apertura in tutti i sensi: l’apertura di una sede nuova quale atto di trasparenza e di “educazione” degli imam alla Costituzione, alla lingua italiana, ai principi non negoziabili della democrazia occidentale. Un’apertura che potrebbe far bene a tutti. A molti di loro, per cominciare, oggi costretti alle catacombe degli scantinati, al buio delle periferie, agli ambienti frequentati anche da infrequentabili. Invece i futuri imam istruiti alla luce del sole potranno presentarsi “urbi et orbi”, cioè alla città e al mondo, come usa dirsi nelle ricorrenze cristiane di San Pietro. E i loro credenti credere senza nascondersi. E farci vedere volti che mai cogliamo col sorriso, anche quando sorridono sotto il velo o la barba lunga. La scuola di formazione potrebbe aiutare a farci conoscere gli imam di domani per nome e cognome, per le loro prediche in italiano (l’arabo è bello, ma non può essere la lingua ufficiale nelle moschee della Repubblica), per il comportamento concreto contro ogni violenza. O per l’omesso comportamento. A volte un piccolo ponte attraversa un grande muro. Non bisogna avere paura di accompagnare chi si mette in cammino.
Pubblicato su Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi