Giuseppe Roma: sono l’uomo che fotografa (coi numeri del Censis) l’Italia che cambia, “un Paese vivo e vero”

Giuseppe Roma, nato a Brindisi nel 1949, è da sedici anni il direttore generale del Censis, la fondazione che ogni anno studia l’Italia che cambia, dedicandovi e pubblicando importanti rapporti conclusivi. Laureato in architettura, insegna all’Università e collabora col Corriere della sera e il Sole 24 Ore. Ha scritto saggi di economia, tra cui “Ricchezza del territorio italiano”.

 

Che significa fotografare ogni anno l’Italia?

“Significa lavorare per un anno, cercando di capire il Paese che cambia. E coinvolgendo nell’impresa più o meno centomila persone interpellate a vario titolo. Noi finalizziamo settanta ricerche in diversi ambiti, dall’economia al sociale, dal territorio alla cultura, all’innovazione. Ma una nostra caratteristica è di approfondire le cose in modo locale. Prova ne sia che, proprio in queste settimane siamo impegnati a Parma insieme col Comune. Questa scelta ci consente di capire l’Italia “dal di dentro”. Noi non siamo, per intenderci, quelli dei sondaggi né quelli della macro-economia. Noi battiamo il territorio, interrogando la classe dirigente intermedia che appare poco sui giornali. Ma che è la vera spina dorsale del Paese”.

Ma il ritratto dell’Italia di oggi, dell’Italia profonda che esplorate, è a colori o in bianco e nero?

“Senz’altro a colori. Il bianco e nero è solo una formula molto elitaria di fare cinema o cultura, una formula datata e oleografica. L’Italia è invece un Paese vivo, un Paese vero. Le ultime indagini ci dicono che questa crisi economico-finanziaria, a prescindere dall’ottimismo o dal pessimismo nel modo di affrontarla di cui tanto si parla, è in continua evoluzione. Questo rappresenta un primo dato positivo: l’Italia reagisce. Noi avevamo pensato a un Paese statico, in pervicace difesa di quello che ha. Invece no, invece l’Italia si sta mettendo in gioco. Abbiamo passato metà dell’anno scorso con i media che annunciavano il crack dietro l’angolo e l’arrivo di milioni di disoccupati con uno Stato allo sbando. Niente di tutto ciò è avvenuto. C’è stata una grande paura degli italiani, ma non è successo praticamente nulla”.

Conferma l’analisi anche per la prima metà di quest’anno, cioè l’archiviato semestre del 2009?

“Quest’anno qualcosa è successo, perché ci sono stati gli effetti dell’economia reale. Alla metà del 2009 e poco più, possiamo dire che i problemi di sicuro non manchino, problemi soprattutto strutturali. Ma gli italiani sono ora meno sulla difensiva. Innanzitutto, perché hanno capito che devono affrontare una cosa concreta, non una paura potenziale come appariva all’inizio. E poi perché un po’ di quest’incertezza s’è nel frattempo trasformata in fiducia, e quindi oggi siamo nelle condizioni giuste per poter recuperare quel che stiamo perdendo a causa della crisi internazionale”.

Come spiega la sindrome dell’auto-denigrazione, la teoria del “declino” italiano evocata in tempi diversi dal ceto dirigente del Paese, da destra a sinistra a seconda di chi “non” governa in quel momento? Perché ci facciamo del male in modo così stupido e provinciale?

“E’ vero, non è un fatto politico del presente, ma è una storia antica. Noi italiani abbiamo la tendenza a considerarci sempre al di sotto degli altri. Una tendenza che dal dopoguerra si è accentuata in certi periodi. Spesso ci consideriamo degli “outsider”, vediamo gli altri molto meglio di come in realtà siano, e noi ci vediamo molto peggio di quanto in realtà siamo. Questa auto-denigrazione è uno sport nazionale che esprime un’inutile dialettica conflittuale, e non ha mai fatto bene al Paese. Del resto, si vede anche nella politica: più si è convergenti, più si ottengono risultati. Al contrario, se prevale il litigio tra i partiti, i risultati scarseggiano. Da questo punto di vista dobbiamo crescere. Faccio un esempio banale. Abbiamo tutti celebrato di recente i quarant’anni dello sbarco sulla luna. Ma lei lo sa che l’Italia è stato il terzo Paese, dopo Stati Uniti e Russia, a lanciare un satellite nello spazio? Non lo sa quasi nessuno. E noi stessi, mentre lanciavamo il satellite, magari ci dicevamo: però gli americani sono più bravi…”.

Quali sono, oggi, i settori e le caratteristiche di maggiore potenzialità nell’identità del Paese?

“Indicherei tre tesori nazionali. Intanto, la grandiosa capacità delle imprese, specie industriali e soprattutto piccole e medie. Poi l’intraprendenza e l’inventiva: l’ottanta per cento del telefonino più avanzato del mondo è fatto di cose italiane; e, ancora una volta, nessuno lo sa! Terzo, ma non ultimo, la qualità della vita. Da noi i rapporti umani e la convivialità sono ancora di livello elevato, certamente il più elevato del mondo. Tant’è che i turisti residenziali, gli stranieri, se vogliono una casa per trascorrere lunghi periodi, l’acquistano o l’affittano in Italia”.

A proposito di stranieri: quant’è cambiato il rapporto degli italiani con loro, intendo con quelli che vivono e lavorano stabilmente nel nostro Paese?

“Credo che ci siano due parti della società. La prima considera l’apporto degli extra-comunitari come una risorsa, oltre che una necessità; l’altra avverte il senso di una minaccia. Ma, da quando siamo entrati nell’euro, un po’ di sicurezza in più l’abbiamo acquisita. E questo, col tempo, contribuirà a superare le diffidenze che pure non mancano. Tuttavia, oggi siamo meno esterofili, più portati a considerare gli altri come noi”.

Lei direbbe, come hanno detto esponenti del governo -a cominciare dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi- che troppe cifre diffuse da troppi “istituti parlanti” alla fine nuociono all’economia, anziché giovarla?   

“Questo avviene anche all’estero, ma fortunatamente c’è il modo per verificarlo. Noi dobbiamo difendere la statistica ufficiale come una statistica indipendente: guai se il governo volesse controllarla. Naturalmente, bisogna allo stesso tempo verificare che certi dati  -quelli che possono far crollare le borse, per capirci-, siano certificati, indipendenti e autorevoli”.

Lo sono in Italia?

“Abbastanza, anche se investiamo poco in questo tema. Penso che la nostra statistica ufficiale dovrebbe essere meno sociologica e più macro-economica”.

Qual è stato l’anno d’oro dell’Italia?

“Il 1963. Quell’anno l’Italia ha veramente svoltato sull’onda del boom cominciato nel 1959. Il Paese usciva dalla ruralità e dalla povertà, diventando una delle nazioni più ricche del pianeta. E con grandi sacrifici. Era un’Italia che si faceva da sé”.

E l’anno da dimenticare?

“Direi il 1978, col sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta da parte delle Brigate rosse. Quel momento segnò un cambiamento anche nella cultura politica. Da allora il conflitto si è fatto inspiegabilmente duro, si è perso o attenuato quel valore di condivisione costituzionale che teneva comunque unita la politica, al di là delle polemiche quotidiane”.

Quali sono le preoccupazioni degli italiani d’oggi?

“D’avere un futuro peggiore del presente. Da quando siamo usciti dalla povertà, siamo sempre andati avanti. Viceversa, nell’ultimo decennio ci siamo un po’ fermati: da qui la nuova e insolita preoccupazione sul domani. Questo riguarda il benessere e quindi la sicurezza in senso ampio, cioè non solo il rischio della criminalità, ma soprattutto la protezione sociale, dallo Stato alla famiglia. “Insicuri”, perché la popolazione invecchia, e teme il venir meno di queste storiche tutele. In secondo luogo indicherei non la paura, ma il grandissimo disagio per tutto quello che è pubblico: i servizi, le infrastrutture, la giustizia…Per molti italiani questa è la vera zavorra del Paese”.

Forse da ciò si spiega la popolarità di cui gode il ministro e fustigatore del settore pubblico Renato Brunetta…

“Esattamente. Ha messo la prima pietra. Ora la sfida è che la burocrazia cambi e non schiacci la società”.

La classe politica è lo specchio di questa società o il suo tallone d’Achille?

“A volte in certi contesti locali la società è perfino peggiore della classe politica. Certo, la tentazione è sempre di dire “ma i politici di un tempo….”. Tuttavia, la tenuta di una società è nella sfera intermedia”.

Ma questa “sfera intermedia”, come lei la chiama, e che abbraccia moltissimi cittadini, appare anni luce più avanti della classe politica. O no?

“Confermo, è più avanti della classe dirigente. Ma almeno in parte ne condivide alcuni vizi. Il fatto è che la classe dirigente non ha più luoghi di formazione. Tutti i leader del mondo, a partire da Barack Obama, hanno compiuto un percorso formativo che non è solo politico. Noi abbiamo una classe dirigente che non sempre è preparata, ma in compenso pensa di sapere tutto. Pecchiamo di improvvisazione. Dobbiamo invece investire in formazione. Vale a dire, Università e ricerca”.

Fra Nord e Sud qual è la cosa che fa la reale differenza?

“Potrei dire il condizionamento della criminalità organizzata in vaste parti del Mezzogiorno. Ciò impedisce al singolo di affermarsi e al mercato di funzionare liberamente. Assistiamo a una lamentazione continua di un certo Sud, mentre è stato tentato di tutto per affrancarlo dai suoi storici problemi. Bisogna ritrovare il comune senso di responsabilità. Penso che il federalismo fiscale potrà aiutare quest’esigenza. Nel Meridione, che è la zona più colpita dalla crisi, ci sono tanti soldi spesi malissimo e, contemporaneamente, tante persone in difficoltà economica. Le classi dirigenti del posto hanno colpe precise e gravi, talvolta si mostrano al limite dell’indecenza. Se non corriamo ai ripari, Nord e Sud rischiano di diventare sempre più distanti fra loro”.

Avremo un autunno caldo o tiepidino?

“Trepidino. Con piogge brevi. Qualche acquazzone….”.

Da che cosa capiremo che la crisi economica sarà alle nostre spalle?

“Non ci sarà un segnale, non potremo dire “da domani saremo felici”. Anche perché venticinque milioni di italiani continuano ad andare in vacanza, e molto altro proseguirà come prima… Il momento tecnico, se vogliamo, sarà l’aumento delle esportazioni. Ma ciò dipenderà pure da Paesi che vanno malissimo, peggio di noi: la tanto frettolosamente celebrata Spagna, il Regno Unito, la Germania. Mentre il mercato interno italiano ha retto abbastanza bene, il nostro vero buco, come del resto la crisi, viene proprio dall’estero. Bisognerà riprendersi, cioè produrre di più, dal 2010. E poi attenzione alle infrastrutture: quando saremo capaci di pensare una cosa e realizzarla entro due anni, saremo in un’altra Italia”.

Che bisogna fare per colpire il mostro dell’evasione fiscale?

“E’ un problema di costume, innanzitutto. Il nostro è un Paese costituito in buona parte da numerosissimi, piccoli soggetti: difficile beccarli. Probabilmente riusciremo a far pagare le tasse a tutti, quando sarà palese che quei soldi sono soldi spesi bene”.

Dell’Italia che cosa rifarebbe subito, e cosa invece conserverebbe così com’è nei secoli dei secoli? 

“Lascerei il paesaggio che, nonostante quanto diciamo, di nuovo, per denigrarci, abbiamo rovinato molto meno di quanto il resto del pianeta si sia rovinato da sé. Il vero collante dell’unità nazionale, quel che ci emoziona da Nord a Sud è il meraviglioso paesaggio italiano. Invece rovescerei il modo in cui gli italiani esercitano il potere, quando ce l’hanno. Chiunque ha la potestà di decidere qualcosa, dal portantino al magistrato, dal politico all’uomo dietro lo sportello, spesso diventa protervo, arrogante. Abbiamo invece bisogno di una società più fluida e rispettosa”.

Pubblicato il 15 agosto 2009 sulla Gazzetta di Parma