Di solito i funerali in diretta tv sono riservati a personalità delle istituzioni o a personaggi amati dal grande pubblico. Giulia Cecchettin non rientra in nessuna delle due categorie. Eppure, la prima volta di un evento trasmesso sulla Rai in ricordo di una ragazza semplice e sconosciuta ai più, adottata come figlia d’Italia per l’atroce omicidio di cui è stata vittima ad opera del suo ex fidanzato, merita gli onori delle esequie di Stato.
Non solo per ciò che questa dolorosa cerimonia ha voluto testimoniare, ma anche per come si è svolta: all’insegna di un filo invisibile di partecipazione, di lacrime e di interventi che si riassumono con una parola sola e desueta, la parola “amore”. Un messaggio universale e non retorico d’amore a fronte di un femminicidio che avrebbe autorizzato i presenti, il padre di Giulia, le amiche e gli amici, lo stesso sacerdote officiante a sfogare il sentimento della rabbia, dell’ira, dell’indignazione per l’ennesimo caso di un uomo che uccide una donna, cioè del fallimento complessivo di famiglie, scuole e società che in quel momento rimbombava nella Basilica di Santa Giustina a Padova, strapiena di gente e di interrogativi. Com’è stato possibile? Dov’è finito il “rispetto per la vita”?, che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sollecitato a riaffermare, parlando altrove nelle stesse ore. Ma soprattutto: che si può fare, perché il “mai più” pronunciato in nome di Giulia non diventi il penultimo di tante altre volte già invocato?
Paradossalmente, le risposte sono arrivate dall’unica persona che non avrebbe dovuto né potuto darle, tanto è affranta per l’addio alla sua Giulia: papà Gino Cecchettin. E’ vero, il suo discorso è stato più forte di cento lezioni a scuola contro il femminicidio. Per i concetti incisivi espressi con delicatezza. Per la commozione (“grazie per questi 22 anni, Giulia”), trasformata in speranza “di cambiamento contro la violenza di genere”. Per l’invito a indicare nella “responsabilità educativa” la fonte collettiva di un male che pur vedrà, con sentenza della magistratura, un colpevole con nome e cognome. “La pace tra i generi”, ha esortato monsignor Claudio Cipolla, “la pace del cuore anche per Filippo e la sua famiglia”.
Se è l’odio ad armare le mani e la mente di uomini indegni di essere uomini, l’antidoto è educare all’amore fin da bambini, scolari, cittadini.
Che il funerale di Giulia possa aiutare davvero a non dire mai più il “mai più”.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova