Quando arriva a Montevideo, il 17 giugno 1841, Giuseppe Garibaldi ha trentacinque anni. L’accompagnano la fidanzata, Anita, e il loro figlio Menotti nato da poco in Brasile, Paese dal quale i tre emigranti provenivano.
L’impatto con l’Uruguay è tremendo. Intanto, perché la famiglia Garibaldi, che formalmente non è ancora una famiglia, ha percorso per cinquanta giorni un cammino sconosciuto e pieno d’insidie. Nell’inverno sudamericano e ventoso Menotti, il figlio di tre mesi, rischia di morire di freddo. “Io lo portavo in un fazzoletto a tracolla, procurando di riscaldarmelo al seno e coll’alito”, ricorda Garibaldi nelle sue Memorie. E poi gli uomini che dovevano aiutarlo nella lunga marcia verso Montevideo gli rubano gran parte del bestiame che aveva appresso, bestiame che doveva servire per essere commerciato all’arrivo nella nuova terra e consentire la sopravvivenza dei primi tempi.
Dalla folta comunità di italiani, molti rifugiati, che l’accolgono con calore, Garibaldi apprende la notizia più triste della sua vita: il padre Domenico è morto. E’ morto quasi tre mesi prima. Di colpo Giuseppe si rende conto di ciò che fino a quel giorno aveva romanticamente trascurato: che cosa volesse dire amare la patria a costo dell’esilio. Voleva anche dire perdere le persone più care senza poter dare loro l’ultimo abbraccio. Le distanze erano il supplizio ulteriore che pagavano gli innamorati della libertà.
Papà Domenico aveva trasmesso al figlio non la sua devozione di credente, ma la passione più divina che un ragazzo aperto di testa e di cuore potesse concepire: l’amore per il mare, l’idea che, navigando i due mondi, il sogno dell’indipendenza nazionale fosse più facile da raccontare, e forse da raggiungere. Neanche le onde, che erano il canto inesauribile dell’Atlantico, potevano fermare il diritto della gente a sentirsi nazione. Per questo Garibaldi dovette fuggire dall’Italia che non era ancora unita e indipendente, nonostante la sua storia bimillenaria da Cesare ed Augusto a Dante, a Colombo, a Michelangelo, e dovette fuggire perché, repubblicano, fu condannato a morte per cospirazione da un tribunale militare del Regno di Sardegna. Per questo era arrivato in Uruguay, che da undici anni aveva una sua Costituzione, senza immaginare che si sarebbe trovato nella condizione, per lui naturale, di doversi battere per difenderne l’indipendenza in quegli anni di Guerra Grande e di conflitto tra Blancos e Colorados. Garibaldi testimoniava con la fama che lo precedeva ovunque andasse, che la patria era il bene più necessario, eppur negato. La patria era la lingua che si faceva legge a beneficio soprattutto dei più deboli. Erano le radici della terra che prorompevano per invocare un futuro nuovo, il futuro della memoria. Era la felicità di vivere e convivere in pace con la tua gente e con chiunque. La patria era, dunque, l’opposto del potere, delle ingiustizie, dello sfruttamento. Ma lui, che mai aveva servito alcun potere, né mai se ne sarebbe servito, ora non poteva più dire “grazie” al padre Domenico, il primo ad avergli dato lezioni di libertà a vele spiegate e con l’acqua salata, e il sole in fronte, e l’orizzonte che induce a guardare sempre più lontano nel vento e nel tempo. Piangere per la patria e per il padre: a volte sono la stessa cosa.
Arrivo amaro, dunque, in Uruguay, dove Garibaldi resterà fino al 15 aprile 1848. Eppure, questa terra per lui diventerà la “seconda patria”, come l’avrebbe considerata e battezzata per sempre.
Basta elencare i fatti per capire perché sono stati così rilevanti quei sette anni di vita e di leggenda. Nella “Ciudad Vieja”, il cuore della capitale, l’anticlericale Garibaldi sposa Anita nella chiesa di San Francesco che non c’è più. A Montevideo nascono tre dei quattro figli sudamericani: Rosita, Teresita e Ricciotti, e Rosita muore ad appena due anni e mezzo per una malattia infettiva. Qui Garibaldi insegna matematica, geografia e calligrafia per mantenersi e mantenere la famiglia. Sempre a Montevideo fonda e guida la Legione Italiana. Si batte nell’epica battaglia di San Antonio, a Salto, salvando, nella proporzione di 186 legionari contro 1.200 soldati del generale argentino Servando Gómez e per nove ore consecutive di uno scontro all’ultimo sangue, salvando, dicevo, l’indipendenza degli uruguaiani dalle mire del dittatore argentino Juan Manuel de Rosas. Quest’anno ricorrono i centosettant’anni di quella decisiva battaglia dell’8 febbraio 1846, quando a Garibaldi non mancò né la fortuna né il valore.
A Montevideo Garibaldi è il “jefe de las Fuerzas Armadas de la República”, il comandante della flotta chiamata a contrastare l’ammiraglio William Brown, nientemeno, un irlandese naturalizzato argentino, il capo di quella Marina militare.
Il suo periodo uruguaiano rappresenta forse il momento più intenso della sua esistenza, di sicuro sono anni vissuti da Garibaldi con una passione, una dedizione e una rettitudine che lo consacrano come “el libertador” agli occhi del popolo. Le prove generali del suo successivo Risorgimento in Italia, Garibaldi le fa a Montevideo. Perciò l’unità d’Italia del 1861, che fu il coronamento di una storia, di una lingua e di aspirazioni tanto antiche da essere modernissime, è figlia della difesa della Montevideo assediata negli anni Quaranta dell’Ottocento. La mitica camicia rossa è stata inventata e indossata per la prima volta in Uruguay.
Quest’uomo a cui gli uruguaiani avevano affidato il comando delle loro navi e il destino delle loro battaglie, viveva con l’umiltà del soldato, non coi privilegi del generale quale pur era.
Al civico 314 di via 25 de Mayo in meno di cinque metri per meno di quattro dormivano i sei Garibaldi: il cielo in una sola stanza. Quando gli ufficiali andavano a parlargli a casa, dopo cena, s’accorgevano che mancavano persino le candele. “Preferisco spendere il poco denaro che ricevo per comprare pallottole”, spiegava lui. Difendere il diritto altrui veniva prima del vivere quotidiano suo e della sua amata famiglia. Così in alto a livello pubblico, ma la mestizia nel privato.
Garibaldi era uomo probo anche nel rapporto mai facile con le istituzioni. Quando l’ex presidente Rivera offre in omaggio a lui e alla Legione Italiana campi, animali e costruzioni come segno di gratitudine per gli atti d’eroismo dimostrati, Garibaldi riunisce la Legione e invia una lettera di risposta da antologia. Scrive a Rivera che ringrazia per il gesto, ma rifiuta il regalo. Spiega che a lui e a quegli italiani -leggo testuale- “bastano l’onore di condividere il pane e i pericoli coi figli di questa terra”. E restituisce al mittente l’atto della donazione. In precedenza la Legione Francese aveva accettato un dono simile da parte di Rivera. “No, grazie”, fu invece l’esemplare risposta di Garibaldi e dei suoi legionari.
Nel mio libro io pubblico anche la trascrizione nell’originale spagnolo -un buon spagnolo di Garibaldi-, di questa lettera che è quasi una fotografia o forse un testamento dell’intera sua vita. Lui non faceva le cose per essere premiato: le faceva perché riteneva che fosse giusto farle. Credere nei grandi sogni -l’unità d’Italia, la libertà dell’Uruguay-, ed essere disposti anche a morire pur di realizzarli, ecco il suo messaggio pulito e senza tempo.
I nemici sconfitti sul campo pensavano di vendicarsi apostrofandolo come “el salvaje pirata”, il pirata selvaggio perché non sopportavano l’idea, Loro, gli armati fino ai denti e in uniforme, e con la Cavalleria a disposizione, e conoscendo bene il terreno di battaglia, non sopportavano l’affronto di essere stati vinti da un italiano solo alla guida di soli volontari italiani e uruguaiani.
Ma Garibaldi pirata non è stato mai. Quando in Brasile abbordava le navi nemiche, lo faceva autorizzato con tanto di patente di corsa, soldato regolare al servizio di un’autorità: lo Stato del Rio Grande do Sul per il quale combatteva. E il primo atto che compiva quando catturava i nemici, e sempre li catturava, era liberare i loro schiavi. “El negro Antonio”, come la storia lo ricorda, fu il primo schiavo liberato in America latina per opera di Giuseppe José Garibaldi. L’unica cosa che quest’italiano ha selvaggiamente difeso, sempre e ovunque, fu la libertà dei popoli oppressi e delle persone alla mercé dei potenti.
L’altra piccola meschineria messa in circolo dagli sconfitti, e frutto avvelenato dell’ignoranza storica, del rancore ideologico o forse solo dell’invidia di chi neppure riusciva e riesce a cogliere la bellezza morale che può animare i grandi sognatori, era di chiamarlo mercenario. Certo, Garibaldi non portava una divisa. La sua divisa erano la barba non lunga e il cuore grande, il poncho e il fazzoletto al collo, il mate e il tipico berretto in testa che nascondevano o facevano ancor più risaltare gli occhi azzurri e vivaci. Mercenario è chi combatte solo per prendere soldi per una qualunque causa di cui poco o nulla gli interessa. L’esatto contrario di Garibaldi, che i soldi rifiutava e rifiutò, e le cause le sceglieva lui. E solo una causa scelse coerentemente per tutta la vita: quella per la libertà, in qualunque lingua e latitudine tale valore fosse stato messo in discussione da chiunque.
E allora “Garibaldi el libertador”, il sedicesimo libro che pubblico dopo trent’anni di professione trascorsa fra radio, carta stampata, televisione e siti, professione imparata alla scuola giornalistica di Indro Montanelli -come mai mi stancherò di ricordare e ringraziare-, vivendo io in Italia ed avendo vissuto periodi bellissimi anche a Londra e a Berlino, e andando avanti indietro con la mia America latina, questo libro è stato per me un piacere, ma soprattutto un dovere.
Piacere nello scoprire, ricerca dopo ricerca e lettura dopo lettura sia in spagnolo, sia in italiano, quante cose non sapevo del Garibaldi uruguayo. Scoprire perché i suoi contemporanei lo adoravano e perché, trentaquattro anni dopo che se n’era andato via per sempre dall’Uruguay, una folla immensa di venticinquemila italiani e uruguaiani, l’equivalente oggi di due o tre milioni di cittadini, sfilavano per le strade di Montevideo per dare l’ultimo saluto, il 23 luglio 1882, a un morto che non c’era.
Ma scrivere di Garibaldi l’ho sentito come un dovere, soprattutto un dovere, perché soltanto un italiano-uruguaiano che riesce a gioire qualunque sia il risultato di una partita di calcio fra l’Italia e l’Uruguay come il sottoscritto, poteva forse avere la serenità e la severità necessarie per cercare di cogliere, da entrambi i punti di vista, i sette anni di Giuseppe José Garibaldi in Uruguay.
Se ci sono riuscito, lo diranno i lettori, voi lettori. Il mio libro è ormai volato via, “se fue de mi alma como una golondrina que está buscando su primavera”.
Ma il solo fatto di sapere che da ieri “Garibaldi el libertador” figuri nella Biblioteca Nacional dell’Uruguay e presso l’Instituto Artigas che forma i diplomatici uruguaiani, mi rende già autore felice e appagato.
Io ho solo raccontato la più grande storia d’amore che ci sia stata fra l’Italia e l’Uruguay.
(Mio intervento alla “Giornata degli Italiani” presso la Fiera delle Esposizioni detta Latu – Laboratorio Tecnológico del Uruguay – a Montevideo il 23 ottobre 2016 durante la tavola rotonda promossa da “la Gente d’Italia”)