Ha volato nello spazio il 31 luglio 1992 con lo shuttle «Atlantis» e il satellite italiano «Tethered». Franco Malerba, nato a Busalla (Genova) nel 1946, è il primo astronauta italiano. Dopo un’esperienza da deputato al Parlamento europeo (gruppo del Partito popolare, 1994), Malerba è tornato al suo lavoro di pioniere dello spazio. Attualmente è l’addetto scientifico dell’Italia presso l’Ocse – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – a Parigi.
Molti bambini sognano d’essere astronauti da grandi. Lei è rimasto bambino o erano altri i suoi sogni?
“Diventare astronauta non era il mio sogno, anche se seguivo le conquiste dello spazio di americani e sovietici, fino allo sbarco dei primi uomini sulla Luna; forse quel periodo di esplorazione e di conquista degli anni Sessanta mi ha incoraggiato agli studi scientifici, nonostante avessi frequentato il classico.”
Qual è la cosa che a un certo punto le ha fatto dire: sì, voglio andare oltre le stelle?
“Queste decisioni non maturano in un momento: sarebbe troppo facile. Nel 1977 ci fu la prima selezione a livello europeo di astronauti scientifici per partecipare alla prima missione del laboratorio spaziale Spacelab, realizzato dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa), perché volasse nella stiva dello Shuttle che proprio in quegli anni faceva i primi voli di test. Il bando di concorso richiedeva competenze in un ampio spettro di campi scientifici ed esperienza di laboratorio sperimentale. E poi di conoscere bene l’inglese e di essere in ottime condizioni di salute. Mandai il mio curriculum pensando di avere una chance minima. Ma dopo sei mesi di selezioni a livello italiano, fui ammesso a quelle europee.”
Il fatto d’essere stato il primo italiano nello spazio (31 luglio 1992) non è stato, dunque, frutto del caso…
“Quando risposi a quel bando avevo 31 anni e due lauree, ingegneria elettronica e fisica. Avevo fatto esperienza di ricerca al Cnr e negli Stati Uniti, avevo un brevetto di pilota privato Usa e un sacco di entusiasmo. Alle selezioni europee arrivai tra i primi quattro (un tedesco, un olandese, uno svizzero e un italiano) e sembrava cosa fatta. Ma tra l’Esa che voleva addestrare quattro astronauti e la Nasa che voleva far posto soltanto a due europei, trovarono una soluzione di compromesso su tre. E fui proprio io il quarto eliminato dal gruppo! Nel 1989 ci fu un altro bando di concorso dell’Asi – l’Agenzia spaziale italiana – per la prima missione del satellite a filo «Tethered». Mi ripresentai, stessa trafila, stessa competizione per essere ammesso all’addestramento specifico alla Nasa, e finalmente per staccare il biglietto; la selezione degli astronauti è una corsa di fondo. La virtù più necessaria è la persistenza.”
Ai familiari come disse «domani vado nello spazio», e che le raccomandarono (a parte di tornare)?
“Alla prima selezione non dissi niente ai miei; mia mamma era piuttosto apprensiva e non c’era ragione di inquietarla per un progetto del tutto ipotetico. Ma quando poi glielo dissi, fu più fiera che preoccupata. Nell’89 lo scenario era cambiato: i genitori non c’erano più e c’era invece Marie Aude, mia moglie, che sebbene non appassionata di questa professione, mi ha sempre coadiuvato.”
Quali erano le caratteristiche della sua missione?
“Era un missione di altissimo profilo, complessa come poche altre. Il progetto più innovativo era legato alle operazioni di un satellite laboratorio che avremmo lanciato dall’Atlantis (il nostro Shuttle) trattenendolo in volo con un cavo lungo venti chilometri, come un aquilone o una canna da pesca. Questa configurazione di volo ci avrebbe permesso di fare misure utili della ionosfera, ma anche di sperimentare la possibilità di generare energia elettrica nello spazio utilizzando il cavo conduttore come una dinamo nel campo magnetico terrestre. L’operazione di un cavo così lungo nello spazio era anche un primo passo verso l’ingegneria dei sistemi flessibili nello spazio, degli ascensori spaziali di cui si parla nei libri di fantascienza. Il progetto della missione nasceva da studi italiani e il satellite era un prodotto dell’Alenia Spazio di Torino: la capacità tecnologica e scientifica italiana veniva alla ribalta internazionale anche grazie all’originalità e spettacolarità della missione.”
Com’è l’Italia vista da lassù?
“In otto giorni abbiamo inanellato 160 orbite sorvolando la fascia equatoriale della Terra; si vedevano bene la Sicilia e l’Etna, con il suo pennacchio di fumo! Ovviamente non si distinguono case e strade, ma di notte si vedono le luci delle città; siccome la maggior parte delle città è vicina al mare, di lassù si riconosce di notte la linea di costa.”
E la Luna guardata da vicino?
“Dagli anni 70 ad oggi non siamo più andati con missioni abitate oltre la zona detta «orbita bassa», laddove circola oggi la Stazione Spaziale Internazionale, e da questa distanza la Luna è ancora molto lontana. Però siamo comunque fuori dell’atmosfera e la vista della Luna e delle stelle è priva di ogni sfarfallio. I contrasti luce/ombra sono fortissimi, anche sui profili dei monti della Luna.”
Ripensa mai a quell’impresa, come capita con l’esame di maturità?
“In effetti quell’esperienza è stato qualcosa di unico e di irripetibile. Visto che lei fa accenno alla maturità, prenderei in prestito alcuni versi di Dante, «qual è colui che somniando vede, che dopo il sogno la passione impressa rimane, e l’altro alla mente non riede, cotal son io…».”
Quattordici anni dopo, quant’è cambiata la ricerca nello spazio?
“La nostra conoscenza fondamentale dell’universo e del sistema solare è cresciuta, grazie ai telescopi e ai satelliti di telerilevamento e grazie alle tecnologie elettroniche, robotiche e delle comunicazioni. Abbiamo sperimentato l’atterraggio di sonde sul suolo di Marte e di Titano. Abbiamo imparato moltissimo sul nostro pianeta Terra, proprio osservandolo dallo spazio. Per quanto concerne il volo abitato invece il bilancio è più modesto. Qualche anno fa l’amministrazione Bush ha deciso di rilanciare l’esplorazione e il volo umano verso la Luna e Marte e gli anni prossimi saranno decisivi per verificare se la Nasa è in grado di realizzare un nuovo sistema di trasporto spaziale, successore dello Shuttle. Intanto fanno la loro apparizione sulla scena spaziale i cinesi!”
Qual è il ruolo dell’Italia in questo viaggiare oltre ogni frontiera?
“L’Italia è il terzo attore delle attività spaziali europee, impegnato in progetti multinazionali in tutti i settori tecnologici, satelliti, lanciatori, osservazione della Terra, volo abitato; ha sviluppato nel tempo una buona capacità industriale e alimentato la crescita di una comunità scientifica rispettata sul piano internazionale.”
Visitando Cape Canaveral, ho notato la gratitudine degli americani per i grandi scopritori italiani, da Cristoforo Colombo in avanti (e indietro: vedi Marco Polo). Perché non sappiamo sfruttare al meglio queste nostre e riconosciute eccellenze nel mondo?
“La scienza della politica della ricerca è una disciplina complessa e in continua evoluzione, che mi capita di studiare oggi come addetto scientifico presso l’Ocse (Organizzazione per lo sviluppo economico). Guardando ai dati statistici, l’anomalia italiana più forte sembra essere il basso livello di investimento in ricerca del settore privato; questa anomalia produce scarso interscambio tra mondo accademico e industria e appiattisce la dinamica del merito, dell’innovazione e dell’imprenditorialità.”
Non sappiamo prevenire il maremoto in Asia, ma spendiamo una barca di soldi per camminare nello spazio. Che cosa replica a chi dice ai governi «la Terra, innanzitutto»?
“Non c’è dubbio che dobbiamo preoccuparci della Terra innanzitutto. Ma in un contesto di economie fondamentalmente prospere come quelle dei Paesi G8, sembra giusto investire una piccola frazione di reddito per la crescita della conoscenza, per esplorare e stimolare l’innovazione e mettere a punto nuove tecnologie. Sull’utilità del volo spaziale abitato rispetto all’esplorazione esclusivamente robotica il dibattito è aperto, e non è affatto sicuro che si realizzeranno le condizioni favorevoli per l’uomo su Marte. Ma se è vero che la nostra società avrà ancora bisogno di tecnici e di ingegneri, allora bisogna anche rappresentare una grande sfida, continuare a coltivare un sogno che possa alimentare nuove vocazioni.”
Con tutti le tragedie nel nostro pianeta – fame, guerre, terrorismi – imbarcarsi per andare su Marte è un insulto alla sofferenza e alla povertà. Che cosa replica a chi dice che lo spazio è solo l’ultima (o la prossima) conquista dell’imperialismo «yankee»?
“Se lotta alla povertà ed esplorazione spaziale fossero due opzioni alternative, non ci sarebbe dubbio sul da farsi e il popolo americano saprebbe scegliere. Ma non è così.”
Nelle iniziative per scoprire il pianeta rosso che cosa c’è di verde, bianco e rosso?
“Il contributo italiano è integrato nello sforzo europeo. Il «Mars Express», la sonda che sta esplorando Marte ruotando in orbita attorno ad esso, e che da due anni a questa parte ci ha fornito una quantità senza precedenti di informazioni sulla chimica e geologia dell’ambiente marziano, porta a bordo numerosi strumenti di misura realizzati in Italia e da scienziati italiani; il satellite stesso è stato assemblato nei laboratori dell’Alenia a Torino.”
Vivremo prima sulla Luna o su Marte?
“Direi sulla Luna; anche se le risorse geologiche a disposizione sulla Luna sono meno promettenti, la Luna è molto più vicina e le difficoltà tecnologiche di costruire un habitat lunare sono più abbordabili.”
Lei crede ai marziani?
“Purtroppo pare proprio che i marziani non esistano. Ma considerata la storia geologica di Marte e la sua dinamica dell’acqua che cominciamo a capire, non è affatto escluso che ci sia qualche forma di vita.”
Crede in Dio?
“Sì.”
L’ha per caso «incontrato», lassù?
“La fede e l’idea di Dio ce la portiamo dentro. Ma guardare al nostro essere da una simile vetta, richiama fortemente alle domande fondamentali e mentre trepidiamo per la riuscita della missione, ci riscalda il cuore sapere che qualcuno prega per noi.”
Andremo in gita nello spazio, prima o poi?
“La domanda di turismo spaziale c’è, e alcune esperienze particolari come «sperimentare l’assenza di peso» o anche come «uscire dall’atmosfera» con un propulsore a razzo sono a portata di mano a costi ragionevoli e ci sono alcune imprese private che ci credono e ci investono.”
Qual è il momento più difficile durante il lancio con l’astronave?
“Decisamente il momento del lancio: la spinta dei motori è possente e ti schiaccia sul sedile, tutto attorno sobbalza e scuote, come in preda a un terremoto.”
E durante il ritorno sulla Terra?
“Ai miei tempi il ritorno era abbastanza rilassato, non sembrava pericoloso. Si vedono lampi rossastri avvolgere l’abitacolo mentre si bucano gli strati alti dell’atmosfera, ma si tratta di un fenomeno tanto spettacolare quanto innocuo di ionizzazione del gas atmosferico colpito dalla nostra nave 25 volte supersonica. A bordo fa un gran caldo e si suda, ma si contano i minuti del «touch down».”
Che cosa prova un astronauta quando, coi piedi ben piantati sulla Terra, alza lo sguardo verso il cielo?
“Il cielo per chi guarda in su da terra è l’atmosfera, siamo immersi in una «piscina di aria» profonda cento chilometri, ma non ce ne rendiamo conto. Mi torna in mente che un certo giorno io sono uscito dalla piscina e il cielo si è fatto nero. La Terra brillava come la Luna piena.”
Pubblicato il 16 luglio 2006 sulla Gazzetta di Parma