Il muro di Berlino era caduto da un pezzo e la Russia non si chiamava più Unione Sovietica. Eppure, in Italia soltanto Indro Montanelli continuava a scrivere, nel 2001, che ai trecentocinquantamila connazionali costretti ad abbandonare le terre italiane di Istria, Fiume e Dalmazia dal 1943 al 1947 e ai quasi ventimila torturati, ammazzati e buttati nelle foibe dai partigiani comunisti di Tito, bisognava chiedere perdono per come furono trattati dalla loro nazione. Ricordando, inoltre, che erano “gl’italiani migliori di tutti per serietà, dignità, coraggio e discrezione”.
Cinquant’anni e più erano nel frattempo passati dalla “drammatica espressione di uno degli orrori del Novecento”, come l’ha oggi definita il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha fatto precisare d’essere in Spagna, anziché alle cerimonie, per un impegno istituzionale.
Ma di quell’esilio di gente innocente e laboriosa che aveva perso tutto, fuorché l’amore e l’onore di sentirsi italiana, di quegli stranieri in patria che venivano accolti al grido di “fascisti” dai militanti e intellettuali di sinistra dell’epoca, di quel martirio senza fine rappresentato da donne e uomini gettati vivi dentro voragini crudeli di una terra bellissima, non si doveva né si poteva parlare. “La congiura del silenzio”, l’avrebbe successivamente denunciata un altro presidente, Giorgio Napolitano. “Vi fu un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”, disse sempre Napolitano nel giorno del Ricordo di dieci anni fa su quanto era stato a lungo taciuto e rimosso.
Una pagina strappata per decenni dalla memoria d’Italia, oltre che dai libri di storia nelle scuole. Persino dai vocabolari: alla voce “foiba” si leggeva solo “grande conca chiusa”. La politica, l’istruzione, l’intellighenzia avevano a loro volta inghiottito la verità dei fatti.
Ma ieri la tragedia censurata ha compiuto settant’anni di dolore. Grazie a una legge tardiva, ma necessaria, e votata nel 2004 da un Parlamento che finalmente seppelliva ogni pregiudizio ideologico di fronte alla gravità dell’eccidio avvenuto a danno di italiani per il solo fatto di essere italiani, il “Giorno del ricordo” ha così riproposto le vicende della violenza e dell’esodo proprio nell’anniversario del Trattato di Parigi, che il 10 febbraio 1947 assegnava le terre italiane sul confine orientale alla nel frattempo scomparsa Jugoslavia.
Tanti eventi in tutto il Paese, dalla Camera con decine di scolari invitati che hanno intonato l’inno nazionale e la presidente Laura Boldrini che ha colto una delle virtù di quei profughi che abbandonavano e che sono stati abbandonati -il loro straordinario spirito di pace- al ricordo in Campidoglio. Alla foiba di Basovizza nel comune di Trieste, che soltanto nel 1992 è stata dichiarata “monumento nazionale”. Prima era considerata, appena, “monumento di interesse nazionale”, a conferma del colpevole oblio e dell’inconcepibile imbarazzo anche istituzionale per un luogo tanto sacro di dolore italiano.
La rimozione è finita, ma le polemiche non si placano. Presenti alla cerimonia di Basovizza, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (centro-destra) hanno criticato la perdurante distrazione della stampa sul tema e, soprattutto, l’assenza delle massime autorità dello Stato proprio nel settantesimo anniversario. A rappresentare il governo c’era solo un sottosegretario, Benedetto Della Vedova.
Ma il rischio vero, ora che nessuno oserebbe più dare alla parola foiba soltanto il significato di fenomeno fisico-geografico, è di relativizzare il Male, di minimizzarlo. Di giudicarlo una delle tante tessere insanguinate nel mosaico brutale della guerra mondiale, dei fascismi, dei comunismi. Ridimensionare quel massacro e l’obiettivo territoriale di quel massacro anti-italiano. Il pericolo incombente? “E’ sconfortante e sconcertante che ci sia oggi in giro qualcuno che tenta di coltivare l’ideologia, balzana e balorda, del negazionismo”, ha detto il vescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi.
Le foibe, l’esilio, l’obbligo di raccontare tutto quel che accadde, alla frontiera, “agl’italiani migliori”: è l’unica forma di perdono che l’Italia possa chiedere ai suoi figli dimenticati e alla loro memoria non più smarrita, settant’anni dopo.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma