Niente Ucraina nella Nato e cessione dei territori (tutti o in parte?), occupati dalla Russia con la guerra d’aggressione e a lei riconosciuti con un negoziato di pace.
Già circola il primo scenario, subito smentito da Mosca ed escluso da Kiev, di ciò che Donald Trump avrebbe nel cassetto o forse solo nell’animo per trattare con Vladimir Putin, se il 5 novembre vincesse le elezioni presidenziali in America.
L’indiscrezione, attendibile o no, rivela comunque due cose: che il ritorno del candidato repubblicano alla Casa Bianca è ormai considerato verosimile. E che potrebbe essere proprio il disimpegno statunitense dalla strategia euro-atlantica a totale sostegno del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e del suo popolo aggredito, a rappresentare una svolta rispetto al presidente, Joe Biden.
Un presidente che si trova in crescente difficoltà anche nel suo partito democratico, dopo il disastroso duello in tv col beffardo antagonista.
Gli americani continuano a interrogarsi su quel faccia a faccia, perché ha svelato un Biden in affanno, chiamato coi sui quasi 82 anni a restare alla guida della principale potenza al mondo per altri quattro anni.
Ma si interrogano anche gli europei sulla Nato, che Trump ha più volte minacciato di voler abbandonare al suo destino, accusando gli alleati di non versare il concordato 2% del Pil per difenderla. Due terzi dei 31 Paesi, Italia compresa, sono chiamati a farlo.
In realtà, al di là dell’eccesso di fiducia e di parole (Trump ha già detto che lui sarebbe in grado di risolvere il conflitto “in 24 ore”), l’eventuale strappo di Washington dalla politica dell’Occidente pro Ucraina sarebbe mossa da ragion politica: non potendo o volendo averle entrambe contro, tra Cina e Russia bisogna scegliere il male minore per gli Usa. E il meno peggio sarebbe accordarsi con Putin, almeno nell’ottica isolazionista del preminente “interesse americano” rivendicato da Trump. Perché Biden, al contrario, risponde che dire a Putin, da lui definito “un criminale di guerra”, che può “fare quello che vuole”, significa andare verso la terza guerra mondiale.
Una contrapposizione chiara, tuttavia non univoca. Anche tra i repubblicani c’è chi considera l’aggressione della Russia l’insidia peggiore, quasi una prova generale -se non contrastata- di quanto potrebbe accadere a Taiwan ad opera di Pechino. Perché non è più il tempo delle distinzioni egemoniche in un mondo sempre più interdipendente, dove ogni mossa nello scacchiere geopolitico finisce per avere effetti ben al di là dell’avversario che si ha di fronte.
Mai come stavolta i prossimi quattro mesi di campagna elettorale di Trump versus Biden (o di un sempre più invocato sostituto in corsa, a cominciare dalla vicepresidente Kamala Harris dalle idee, però, molto più a sinistra del moderato Biden), incideranno sulle scelte di tutti.
La Casa Bianca non è più un’esclusiva di Washington.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova