Foto che vedi, storia che cambia. Il mondo è pieno di immagini, il più delle volte casuali, che però di fortuito hanno ben poco. In realtà testimoniano, senza averlo voluto, un evento straordinario e spesso dirompente, perché ritraggono svolte nei tempi e nei costumi dell’umanità e nella vita delle persone colte sempre non al momento dello scatto, ma “col senno del poi”. Per esempio l’immagine da brividi degli undici operai seduti su una trave sospesa a 250 metri d’altezza, a New York, mentre pranzano sull’impalcatura in vetta a un grattacielo, incuranti delle vertigini e dell’anonimo fotografo che nel 1932 li avrebbe scolpiti per sempre. Un’immagine che ancora oggi evoca il sacrificio e il rischio del lavoro. Oppure la fotografia (autore Robert Doisneau, professionista francese) di un bacio liberatore e divenuto famoso tra una giovane coppia che a Parigi festeggia la fine della seconda guerra mondiale. Immortala la grande speranza di una rinascita per tutti. O, ancora, gli occhi spalancati e verdi di una ragazza afgana di appena 12 anni rifugiata in Pakistan. Sono passati quarant’anni da quello scatto, stavolta fatto da un altro professionista come lo statunitense Steve McCurry e finito sulla copertina di National Geographic. Eppure, quell’espressione racconta come poche il dolore dei conflitti e dell’esilio. O la celebre e drammatica immagine (versione forse più conosciuta quella del fotografo, anche lui statunitense, Charlie Cole di Newsweek) dello studente cinese che si antepone ai carri armati in piazza Tienanmen il 5 giugno 1989, fermandoli. Un gesto di rivolta non violenta di un uomo qualunque portato via dai soldati. Che furono costretti a spegnere i motori per non travolgerlo -lui, infatti, si rifiutava di spostarsi- e di cui mai s’è saputo con certezza né il nome né che (brutta) fine abbia fatto. Un’immagine anonima, e tuttavia potente nell’invocare la libertà.
Gli scatti che hanno cambiato il mondo, o che ne hanno preconizzato il cambiamento, abbondano in tutti i settori, ma in particolare nello sport. Dal calcio al pugilato, dalla pallacanestro all’atletica, dal ciclismo all’automobilismo, allo sci è pieno di “momenti di gloria” che ciascuno di noi, rivedendo quelle fotografie, immagini e sequenze, ricorda con emozione. Una per tutti: l’urlo di Marco Tardelli (sette secondi) dopo il secondo gol contro la Germania a Madrid nel 1982, che ci avrebbe incoronati campioni del mondo per la terza volta, allora.
Anche la meravigliosa lunga marcia di Jannik Sinner è costellata di immagini già memorabili. Quanta fortuna e quale privilegio poter vivere il tempo e partecipare alla felicità del trionfo di questo “bravo ragazzo”, espressione fino a ieri convenzionale, ma che con Sinner riacquista il suo significato esemplare: una persona che vale, a cominciare dall’aurea umiltà che trasmette, e che è la virtù dei forti.
Dei tanti “attimi fuggenti” immortalati con una fotografia, voglio qui indicarne uno che mi ha molto colpito, perché può rientrare nella categoria dei “clic” che hanno fatto la storia involontariamente, cioè che hanno anticipato o suggellato i tempi che cambiano (i lavoratori sospesi, il bacio della coppia, gli occhi verdi, l’uomo e i carri armati e così via).
Alludo a un’immagine divertente, che s’è appena intravista in tv. Ma che è stata fotografata e messa in Rete con ironia e battute.
Quell’immagine ritrae sugli spalti del torneo australiano di Melbourne una bandiera tricolore esibita da due giovani tifosi di Jannik Sinner durante la splendida partita da lui vinta con Novak Djokovic in semifinale. Una bandiera con la scritta “Südtirol griaßt Jannik”, l’Alto Adige saluta Jannik. Un simpatico incoraggiamento impresso in dialetto e ben visibile al centro, cioè sul bianco del Tricolore.
Nel suo piccolo e del tutto spoliticizzato intento e contesto, com’è ovvio che sia (chi mescola politica e sport fa sempre un danno all’una e all’altro), la foto riassume come meglio non si potrebbe il ricco traguardo raggiunto dai figli di questa terra. Sventolare il Tricolore con al centro un’espressione in dialetto tirolese, significa certificare con goliardia la compiuta e consapevole doppia identità acquisita e frutto della Heimat sudtirolese e della Patria italiana. Una consapevolezza, tra l’altro, che proprio Sinner, il ragazzo di Sesto Pusteria orgoglioso d’indossare la maglia Azzurra, e che dopo 47 anni ha fatto riportare la Coppa Davis nel nostro Paese, interpreta in maniera sublime e con disincantata passione. Semplicemente con la libertà di sentirsi ciò che si è nella realtà della vita e del tempo che passa. Una realtà così lontana dalle solite diatribe etniche, che mal si conciliano non solo con la storia che cammina, ma anche e soprattutto col cuore delle persone. Qualunque lingua le persone parlino. Sentimenti, innanzitutto.
Foto che vedi, storia che cambia. Anche in Südtirol, Italia.
Pubblicato sul quotidiano Alto Adige