Anche per i presidenti del Consiglio c’è sempre una “prima volta”.
Ieri il debutto di Giorgia Meloni, con famiglia al seguito (il compagno Andrea e la figlia Ginevra) da Papa Francesco in Vaticano. Ma il giorno precedente la Meloni s’era incontrata a Palazzo Chigi con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea e a sua volta prima personalità che la nostra presidente del Consiglio aveva scelto di vedere ufficialmente, volando a Bruxelles poco dopo l’insediamento del governo.
Non meno significativi l’annuncio del viaggio a Kiev da Zelensky e gli interventi ai vertici, dal G20 dello scorso novembre in Indonesia al G7 del prossimo maggio in Giappone. Così come i colloqui internazionali a cui ogni primo ministro è chiamato dal suo ruolo nazionale.
In meno di tre mesi quell’“Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”, ha lasciato il passo e il posto a una consapevole e tutt’altro che sprovveduta presidente del Consiglio. Che ha capito subito una lezione non ancora e non sempre digerita dai suoi stessi alleati Berlusconi e soprattutto Salvini: il dovere della trasformazione istituzionale per chi varca la soglia di Palazzo Chigi.
Giorgia Meloni non è più la leader della destra italiana, né una politica premiata dai sondaggi. E’, invece, la rappresentante dell’Italia e perciò il Pnrr o perfino il pur disdegnato Mes valgono uno o dieci conversazioni con von der Leyen. Così come conta il rapporto storico e speciale, suggellato nella Costituzione della Repubblica, con la Santa Sede.
Gli elettori legittimano, ma sono i comportamenti istituzionali che accreditano: ecco perché è così importante evitare tentazioni di isolazionismo (per esempio nella politica sull’immigrazione, che dev’essere europea) o declamazioni continue, di nuovo alla Salvini. Anche in politica talvolta il silenzio è d’oro. Come insegnava Mario Draghi, quando non si ha niente da dire, è bene tacere.
E’ un insegnamento che l’esordiente Meloni pare aver appreso in fretta, almeno stando alle sue prime mosse e dichiarazioni. Il governo è chiamato prima a fare e poi a spiegare. O a spiegare quel che ha fatto.
L’epoca delle parole che non dicono né fanno, è finita con la guerra in Ucraina, con la crisi energetico-economica, con la pandemia in agguato, coi conti di famiglie e imprese che non tornano alla fine del mese.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi