Al tempo del Coronavirus le parole valgono quanto gli esempi. Se poi a esprimersi sono i rappresentanti delle istituzioni, il diritto a prenderli sul serio per chi ascolta è pari al dovere della verità per chi parla. Le illusioni, le promesse, i “faremo” non sono contemplati nell’epoca della grande sofferenza. L’ora che non perdona seppellisce ogni falsa speranza o credenza.
Perciò il “mai più” che il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha pronunciato senza retorica a Bergamo, città-simbolo del dolore italiano, dev’essere considerato non un semplice augurio, bensì l’indizio e, si spera, l’inizio di una svolta per la politica. Mai più accadrà che i nostri anziani e le persone fragili non saranno adeguatamente assistiti e protetti, ha assicurato Draghi. “Lo Stato c’è e ci sarà”, ha detto a braccio, definendo lui stesso “impegno solenne” quello che ha preso nel giorno della memoria delle oltre centomila vittime da Covid, un anno e almeno tre ondate dopo.
Tuttavia, quest’impegno solenne deve andare ben oltre la pandemia e la battaglia campale della vaccinazione per sconfiggerla. Il mai più deve riguardare non il passato, ma il futuro. Non solo l’obbligo di ricordare per non ripetere, ma anche il dovere della ricostruzione economica e morale della nazione. Quel sentimento collettivo che spinse la generazione del dopoguerra a rimboccarsi le maniche per rimettere il Paese in cammino. Quella coscienza nazionale che guidò la classe politica di allora, non meno conflittuale di quella di oggi, eppure consapevole che l’unità doveva prevalere sulle divisioni. E che la voglia di ricominciare era più forte delle rovine. E che gli investimenti strutturali sarebbero stati più utili degli aiutini a corto respiro.
Oggi come allora alla politica si richiede la visione di una certa idea dell’Italia, libera dal virus e di nuovo intraprendente in economia. E’ proprio il compito di quello “Stato che ci sarà” evocato da Draghi e chiamato a risollevare le categorie in difficoltà e a far ricredere i cittadini sul fatto che stavolta potrebbe essere la volta buona. Che gli “impegni solenni” non saranno le solite chiacchiere vane e vanitose. Che una tragedia senza fine -la stiamo vivendo-, può diventare una sfida anche per cambiare marcia e restituire alla politica quel senso delle istituzioni e del fare la cosa giusta che tutti da sempre reclamano.
E’ il tempo delle buone parole, non più delle parole che piacciono.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi