Luca Zaia è nato a Conegliano (Treviso) e ha quarant’anni. E’ il ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali nell’attuale governo. Rappresentante della Lega Nord, Zaia è stato vicepresidente della giunta regionale del Veneto con delega alle politiche del turismo e dell’agricoltura fino allo scorso mese di maggio. In precedenza era stato presidente della Provincia di Treviso.
Lei ha gioito per il fallimento dei negoziati Wto, sigla che in inglese sta per Organizzazione mondiale del commercio. Che c’era da festeggiare?
“Piuttosto che un cattivo accordo, meglio nessun accordo. Non è che si gioisce. Il problema è che noi avevamo chiuso una buona partita rispetto ai prodotti tropicali, mantenendo i dazi sulle produzioni italiane. Il riso ha un dazio di 170 euro a tonnellata. Se fosse stato inserito nella lista del Wto, sarebbe andato a zero. Quindi fine delle risaie della pianura padana, e riso tailandese a go-go per tutti. Però la sera prima del salto del banco negoziale noi avevamo la quasi certezza che non avrebbero accettato la difesa delle indicazioni geografiche. Pertanto un territorio come l’Italia, che ha cinquecento denominazioni solo per i vini, 171 certificazioni dop e igt, si sarebbe trovato a confrontarsi con chi propone, semplicemente, vino bianco oppure rosso. Non esiste”.
Ma ci saremmo impuntati, o alla fine avremmo comunque firmato un’intesa, purché fosse?
“Nessun cedimento. D’altronde, ci trovavamo di fronte Paesi come la Cina o l’India, tre miliardi di cittadini che delle indicazioni geografiche non se ne fanno niente. Ma è meglio una produzione indifferenziata senza nome o una produzione strettamente legata ai territori? L’Italia non ha dubbi sulla scelta. Ed è ovvio che la valorizzazione dei prodotti riconoscibili sui mercati cambi molto”.
La grande crisi internazionale del cibo come la si affronta in modo credibile e realistico?
“Producendo derrate alimentari. Il direttore della Fao ci spiega che, per sfamare sei miliardi di bocche nel mondo, bisogna raddoppiare la produzione agricola. Quindi basta col dire che ci sono le “eccedenze”. Abbiamo visto in Europa il disastro della cattiva programmazione: meno due milioni di tonnellate di latte, meno mezzo milione di tonnellate di carne, e inoltre mancano i cereali. Rischiamo anche noi di patire la fame, se va avanti così. Perché non siamo più autosufficienti”.
Tra l’altro: che cosa c’è di meglio del pane, della pasta, del riso, della polenta -tutte specialità italianissime- per sfamare a costi bassi e con energia il pianeta?
“E’ così. Ma per farlo, il problema è che dobbiamo portare la produzione agricola al centro del ragionamento. Invece abbiamo pagato i contadini per non produrre! (e non s’offendano se li chiamo contadini, perché hanno tutti la partita iva, e dunque sono imprenditori)”.
Può spiegare perché la Francia faccia le barricate per difendere la sua agricoltura in Europa, mentre noi a Bruxelles mandiamo semplici funzionari a battere i pugni sul tavolo?
“Da cento giorni a questa parte la musica è cambiata, perché ci va il ministro in persona. Io non ho saltato alcun Consiglio dei ministri europeo”.
Accade da cento giorni o accadrà per i prossimi cinque anni?
“Ci andrò sempre. Ho preso quest’impegno, ho criticato Bruxelles per quindici anni: non posso venir meno alla mia “missione”.
Sta dicendo che è pronto a immolarsi per la nostra frutta e verdura?
“Prontissimo. E l’ho già fatto, perché abbiamo una posizione di intransigenza nei tavoli di negoziato. Sa, lì c’è il rischio della pacca sulle spalle, del diventare tutti amiconi. Cordialità d’accordo, ma noi sosteniamo le nostre istanze”.
Assisteremo ancora allo sconcio delle arance, dei limoni, e del latte buttato via perché in sovrapproduzione rispetto ai dettami europei?
“Il pericolo riguarda soprattutto gli agrumi. Attenzione però: le arance vengono buttate via, non per sovrapproduzione, ma perché i nostri costi di produzione sono tali per cui il dumping di altri Paesi ci mette in ginocchio (il dumping è vendere una merce all’estero a prezzi inferiori a quelli praticati nel mercato interno ndr). Le arance in giro per il mondo le mangiano, eccome. Ma non vogliono mangiarle a “quel” prezzo, perché c’è qualcun altro che fa il furbo”.
Come se ne esce?
“Puntando all’autosufficienza dei nostri mercati, e difendendoli. Evitando il dumping. Tu Paese in via di sviluppo vuoi commerciare con me? Benissimo. Ma il commercio dev’essere equo e solidale, deve cioè rispettare regole. Le regole della sicurezza nel lavoro e negli alimenti, le regole della maternità, del lavoro minorile, dell’ambiente. Dopodiché, tu suoni il campanello, noi apriamo la porta e decidiamo se puoi entrare o no nel nostro mercato. In commissione parlamentare un deputato mi ha chiesto: ma lei, ministro, ha la politica della porta aperta o chiusa? Io ho replicato: la mia politica è di mettere finalmente la porta, perché non l’abbiamo mai avuta”.
Chi è il contadino italiano del 2008?
“Io spero che sia sempre più un “soggetto economico”, e che sia giovane. Ricevo posta da moltissimi ragazzi che chiedono aiuto per comparsi un’azienda agricola. Oggi c’è un ritorno, sta accadendo qualcosa di unico in questo momento. Si sta nobilitando nuovamente l’attività del contadino, com’era successo in passato per gli artigiani. Negli anni Settanta fare gli artigiani non sembrava qualificante. Poi nel decennio successivo abbiamo avuto l’idraulico con la Mercedes. In agricoltura sta avvenendo lo stesso, incoraggiante fenomeno: la riscoperta del contadino-imprenditore”.
Del suo Veneto che c’è da sapere?
“Il mio Veneto ha 160mila aziende agricole, 25 doc, 3 docg, 350 prodotti tipici. L’azienda agricola media ha un ettaro e ottanta di superficie. Siamo i primi produttori italiani di vini con 7milioni e mezzo di ettolitri. Direi che l’ho detta tutta”.
Come si fa a evitare di pagare sette euro un chilo di ciliegie? Oppure ottantotto centesimi mezzo chilo di pasta? Oppure, ancora, e in piena estate, un euro e trenta un chilo di pomodori tondi ramati (e comprati, tra l’altro, al supermercato)?
“Stringendo un patto col consumatore. Pensando che se quelle ciliegie le vuoi mangiare a dicembre, le pagherai anche più care, ma non sono ciliegie dei tuoi contadini. Al consumatore dobbiamo dire: stagionalità e consumo di prossimità per avere garantite la freschezza e la sicurezza alimentare del prodotto, e nel contempo per valorizzare l’identità del territorio, salvando così l’azienda agricola del posto e contribuendo a una scelta strategica per l’intero Paese. Chi non difende l’agricoltura, non ha una visione lungimirante. Non possiamo accettare che, con la sparizione dei contadini, cioè dei nostri produttori, la multinazionale di turno venga a dirci come, dove e quanto pagare le derrate alimentari”.
Ma il ministro dell’Agricoltura che mangia abitualmente?
“Io mangio troppo, sono in soprappeso…Io sarei un carnivoro. Però apprezzo anche le verdure. E la pasta. Una dieta molto squilibrata…”.
Una squilibrata dieta mediterranea?
“Perfetto. Riveduta e modificata…”.
Mangia anche prodotti ogm (organismi geneticamente modificati)?
“In Italia in teoria non si dovrebbero mangiare”.
E all’estero li mangia?
“No”.
Ai ricevimenti istituzionali lei impone prodotti italiani, o è di quelli che a tavola fa l’europeista?
“Da quando ho avuto incarichi come pubblico amministratore, ho sempre fatto mangiare salami, mozzarelle, pane fatto in casa. Altro che “vuolevant” e roba simile”.
Perché le piacciono i dazi?
“I dazi non bastano, ma aiutano. Il mercato è come una corsa di cavalli: se il fantino pesa troppo poco, bisogna lavorarlo un po’, mettendogli i pesi. Ci sono Paesi che vengono da noi, fanno dumping, distruggono il tessuto produttivo del nostro territorio, e sa come finirà? Finirà che, giunto il momento, diranno: queste arance prima te le regalavamo, ma adesso decidiamo noi quanto fartele pagare”.
Sta dicendo che sarebbe ora di gridare “chi se ne importa della globalizzazione”?
“Decisamente sì. Noi siamo un mercato di 458 milioni d’abitanti. E’ il mercato più importante del mondo. A parte la storia, la cultura, l’Europa ha il più alto reddito pro capite. Potremmo anche dettare qualche regola, no?”.
Come spiega la riscoperta quasi bucolica del buon cibo, del prato verde, del canto dell’usignolo, dell’agri-turismo come il paradiso perduto e, nello stesso tempo, la lunga stagione dell’indifferenza assoluta che c’è stata per l’agricoltura d’Italia?
“Per anni abbiamo vissuto una dissociazione generale rispetto al prodotto tipico della terra, che il consumatore ha legato sempre di più al mercato. Molti identificano l’”azienda agricola” con il supermercato. Tanti bambini credono che le vacche siano bianche e viola, a forza di vedere la pubblicità della Milka, o che il pulcino non nasca dall’uovo. In troppi non hanno mai visto una capra in vita loro. In tutte le mie visite, io cerco di trovare l’occasione per andare in un’azienda e farmi fotografare con gli animali alle spalle. Voglio far capire che c’è un mondo dietro lo scaffale del supermercato”.
Ma ai suoi amici leghisti gliel’ha detto che aver abolito il ministero che lei ora dirige -essendo nel frattempo risorto-, è stata una follia?
“Io stesso nel ’94 votai per abolire il ministero. Sono convinto d’aver fatto bene. C’è però da dire una cosa, che noi cittadini non avevamo valutato. Il ministero ha un ruolo negoziale che un ente locale non potrebbe avere. C’è un soggetto che nel frattempo è comparso a piè pari, e che si chiama Europa. E solo gli Stati membri possono trattare. Altrimenti, il ministero non avrebbe senso alcuno, se non per funzioni di coordinamento che qualcuno deve pur fare”.
Quali sono i due o tre prodotti nuovi, rispetto alla tradizione nota e consolidata, su cui l’Italia potrebbe puntare in futuro?
“L’atlante dei prodotti tipici è sempre in aggiornamento. Dovremmo completare il paniere con prodotti di nicchia, con le grandi eccellenze, tipo mozzarella di bufala, parmigiano reggiano, grana padano, la pasta e così via. In questo ambito siamo i primi al mondo in assoluto. Le do un dato che fa rabbrividire: il novanta per cento del “made in Italy” negli Stati Uniti, non è affatto “made in Italy”. Questo la dice lunga su quanto siamo forti, perché tutti vogliono imitarci”.
Che cosa garantisce che le nostre cose siano sicure quando arrivano in tavola?
“Se ci sono scandali, è perché il nostro sistema di controlli li scova. E sono infinitesimali rispetto alla mole di produzione. Potrei fare un elenco di certificazioni, di interventi, di criteri adottati. Ma preferisco dire che sono il consumatore e le sue scelte la migliore garanzia”.
Vino o birra?
“Mi piacciono entrambi. E poi sono intervenuto per salvare la birreria di Pedavena, che è l’unica a produrre in Italia con capitale italiano. Il dovere dell’equanimità…”.
Cappuccino e cornetto o solo un caffè per cominciare la giornata?
“Ho un problema: non faccio colazione. E non bevo caffè”.
Ma al ministero i fannulloni li manda a zappare i campi per punizione, o bisogna chiamare il suo collega-ministro, l’implacabile Renato Brunetta?
“Fare i contadini non è una punizione, è un privilegio. Fatica, ma privilegio. L’approccio col personale dev’essere rigoroso e allo stesso tempo premiante. Pochi giorni fa ho scritto ai dirigenti, per dire che devono dare anche loro il buon esempio. Poiché il ministro arriva alle sette, sette e mezzo del mattino a lavorare, loro non possono essere da meno”.
Ci vengono?
“Adesso vedremo. Però la generalizzazione non paga mai. Obiettivamente fra i tre milioni e passa di dipendenti pubblici qualcuno si comporta male. Ma i bravi sono tanti”.
Pubblicato il 10 agosto 2008 sulla Gazzetta di Parma