Delle molte sorprese che sempre nasconde ogni legge di Stabilità, come viene oggi chiamata la tradizionale manovra economica del governo, quella delle 22 mila sale giochi previste da un bando inserito fra i commi del testo è la più “azzardata”, letteralmente. Puntare, infatti, sul gioco d’azzardo come leva per contribuire all’auspicata crescita che ci faccia uscire a riveder le stelle dopo una crisi lunga per tutti, e per molti pure drammatica, significa a un tempo andare sul sicuro e rischiare. Andare sul sicuro, perché non occorre ricordare il giro d’affari che proviene da questo settore, paradossalmente tanto più frequentato dagli italiani quanto maggiori per loro sono le difficoltà del presente: quasi 85 miliardi di euro sono stati spesi solo nel 2014, e scusate se è poco. Ma il rischio discende proprio dall’idea di affidarsi alla dea Fortuna per risollevarsi. Dal contesto di illegalità che troppo spesso ruota attorno a questo pianeta del divertimento, ma anche della disperazione. Dalla sensazione che basti un colpo di bacchetta magica, per risolvere i problemi accumulati nella vita. Come se l’occasionale buona sorte, che purtroppo per tanta gente si trasforma nell’ossessivo e debitorio tentativo di conquistarla, potesse sostituire il sacrificio del lavoro e perfino l’impegno a cercarlo quando non c’è o non c’è più. Non è un caso che istituzioni, associazioni e personalità in prima fila come don Luigi Ciotti si battano da tempo contro il miraggio del gioco facile, che non è mai sinonimo di guadagno facile. Ed è quantomeno curioso che lo Stato, lungi dal tenersi perlomeno fuori dalla contesa se sia giusto o sbagliato solleticare la fortuna con tanti punti-giochi sparsi lungo la Penisola, ne diventi in qualche modo il metaforico biscazziere. Perché qui in ballo non ci sono soltanto numeri e conti, che ogni governo ha il dovere di risanare a beneficio dei cittadini di oggi e dei loro figli di domani. Qui c’è anche l’indicazione che la strada della scommessa è percorribile come quella del lavoro, che l’avventura è paragonabile all’intraprendenza, che in fondo si sta solo giocando: mentre per molti così non è, perché spesso si crea uno stato di dipendenza. Nessuno auspica lo Stato etico: non spetta ai governanti insegnarci come vivere. Però gli esempi che vengano dall’alto, le “buone leggi”, la scelta fra un modo per rilanciare l’economia o un altro sono l’unico “azzardo” che si esige dalla classe dirigente.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi