Cecilia Sala fra due Stati e due misure

L’una è costretta a dormire per terra, al freddo, senza occhiali (glieli hanno tolti). L’altro può guardare la tv, ha un tablet -sia pure privo di accesso a internet-, parla con i suoi avvocati e familiari con la massima libertà.

Ma quant’è diverso il destino purtroppo incrociato fra la detenuta Cecilia Sala, giornalista italiana imprigionata in Iran dal 19 dicembre senza potersi difendere da accuse evanescenti e il detenuto Mohammad Abedini-Najafabadi, ingegnere iraniano esperto di droni accusato dagli americani di sostegno materiale al Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, considerata da Washington un’associazione terroristica, e perciò arrestato il 16 dicembre a Milano su richiesta Usa. Un caso, due misure, perché in Occidente i diritti della persona non dipendono dagli ayatollah.

Ed è questa la principale difficoltà di una trattativa che non dovrebbe neppure esserci, perché la giornalista non ha violato alcuna regola, neanche quelle arbitrarie dei regimi illiberali (fare giornalismo non risulta essere reato). Invece sull’ingegnere pesano accuse pesanti che gli americani riferiscono a una strage in Giordania un anno fa (tre loro soldati uccisi e 40 feriti da droni che elusero le difese antiaeree) formulate in un Paese democratico con una giustizia indipendente. Ed è trattenuto, l’accusato, da un altro Paese democratico con una magistratura altrettanto indipendente e con grandi possibilità di difesa.

Sono accuse, peraltro, che l’uomo respinge tutte, come la libera informazione di uno Stato di diritto, l’Italia, abituata ad ascoltare sempre le due campane anche in un intrigo internazionale, ha puntualmente riferito.

Proprio questo dialogo istituzionale tra sordi, ossia fra un regime che incarna il fondamentalismo islamico e un governo nel solco del liberalismo occidentale, un dialogo doveroso, ma impari perché troppo differenti sono gli ordinamenti nei due Paesi e le sensibilità e i valori di chi li guida, impone una cautela diplomatica e una pazienza politica fuori dal comune.

Questo spiega la richiesta del silenzio stampa da parte della famiglia di Cecilia Sala, “perché la situazione è molto complicata e molto preoccupante”.

Ecco il delicatissimo equilibrio: far sapere al mondo quel che accade a una nostra connazionale in Iran, incolpevole di tutto eppur tenuta in una cella punitiva, senza far salire la tensione con le preposte e suscettibili autorità di Teheran. L’insopprimibile dovere di informare e la necessità prioritaria di riportare al più presto Cecilia in Italia. Liberare la giornalista anche da un “dibattito mediatico” che possa allungare i tempi o allontanare la soluzione della vicenda, chiedono i familiari.

Ma le due esigenze -informare liberamente ed essere istituzionalmente discreti- sono solo in apparenza contrastanti. La politica del silenzio rischia solo di seppellire la verità dei fatti e di rendere la vicenda irrisolvibile.

Ma allo stesso tempo la diplomazia ha bisogno di agire con diligenza e con riservatezza per ottenere l’unica cosa che conta per tutti: il ritorno di Cecilia Sala a casa.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova