La sua vita finì tra le fiamme di uno scontro fra due aerei che dovevano decollare a Medellín, in Colombia, giusto ottant’anni fa. Eppure, dello sfortunato passeggero Carlos Gardel, la voce del tango che si è spenta per sempre il 24 giugno 1935, ancora oggi in Sudamerica si dice che “cada día canta mejor”: ogni giorno canta meglio. La sua leggenda sembrava sopravvivere tra i soli appassionati a quel genere musicale malinconico, se ascoltato, e sensuale, se ballato. Ma pochi anni fa il regista spagnolo Pedro Almodóvar col suo “Volver”, tornare, un film che citava proprio un celebre tango di Gardel, ha ridato vita al mito, facendo interpretare a Penélope Cruz (anche se la voce non era la sua) le parole struggenti che nella canzone sono dedicate a un viandante. Un viandante che fugge dal suo passato, dal suo primo amore, dalla sua terra. Ma che un giorno decide di tornare, perché nella vita “presto o tardi si ferma il suo andare”.
Il resto si deve a papa Francesco, che il mercoledì dell’udienza generale fa ascoltare in piazza San Pietro le note di “Por una cabeza”, per una testa, altro bellissimo tango composto e cantato da Gardel. Artista che il pontefice ama quanto il mate, infuso dal sapore caldo e amaro che si beve come un tè e che rispecchia, esattamente come Gardel, l’anima profonda del Río de la Plata, il fiume più largo del mondo fra l’Argentina e l’Uruguay che ha dato i natali al tango e al suo più grande cantore.
Sì, è la riscoperta di Carlos Gardel, ottant’anni dopo. Anche lui è diventato un simbolo dell’ascesa prorompente dell’America latina, dove forse non si fanno più rivoluzioni, ma si gioca al calcio “¡hasta la victoria, siempre!”. Con tanto di Mondiale del tango a Buenos Aires giunto alla sua dodicesima edizione. Se oggi Gardel fa campionato come mai in passato, il merito è anche di Astor Piazzolla, l’argentino-italiano che ha reso universale quel suo tango così sudamericano. E che conobbe Carlos a New York quando Astor aveva appena tredici anni e suonava il bandoneón -la speciale fisarmonica del tango-, “como un gallego”, come un abitante della Galizia, lo rimproverava Gardel. Cioè suonava lo strumento come un perfetto straniero per quella melodia da marciapiede, piena di miseria e nobiltà perché frutto dell’emigrazione italiana e spagnola nei quartieri più umili di Buenos Aires e Montevideo. Piazzolla ha dato modernità alla voce inconfondibile e antica di Gardel, musicista che arrivò a incidere 1.500 dischi e a essere un divo, per l’epoca, anche in svariati film. Un Frank Sinatra del tango, dunque, un Rodolfo Valentino della canzone, perché Carlos Gardel era anche bello. E fumava. E sorrideva. Incantava le platee come lo Humphrey Bogart di Casablanca. Cappello, impermeabile e cinismo compresi. Faceva perdere la testa alle donne -anche se mai ne sposò una- e forse anche agli uomini. Di lui s’è scritto tutto e il contrario di tutto, come si conviene a un personaggio tanto popolare, ma dall’infanzia difficile e perfino misteriosa. Ben tre Paesi ne rivendicano la nazionalità, anche se documenti inoppugnabili, a cominciare dal passaporto, certificano la sua nascita in Uruguay (a Tacuarembó, dove sorge un prezioso museo alla memoria). Così come inoppugnabile è la sua domanda di acquisire anche la cittadinanza argentina quando aveva vent’anni e il successo cominciava a esplodere pure in Europa. Al punto che i francesi sostengono che il cantante sia nato a Tolosa.
L’uomo delle tre patrie, un contenzioso che l’Uruguay ha proposto di risolvere per sempre con la prova del dna sulla salma di Gardel, che è sepolto a Buenos Aires. Ma fra le due sponde del Río de la Plata la partita del tango è ancor più complicata di quelle del calcio, come succede tra popoli-fratelli. Nella tomba quasi imperiale al cimitero La Chacarita il musicista è raffigurato con un monumento in bronzo, ritto ed elegante. Giacca aperta, farfallino ben annodato al collo e un sorriso beffardo. Tra le sue dita i visitatori sono soliti mettere una sigaretta accesa. E ce n’è sempre una: il fumo del pellegrinaggio.
“Ehi, pilota, quest’aereo sembra un tram a Lacroze”, furono le ultime parole ascoltate dalla voce di Carlos, ormai cinquantenne, che paragonava il trambusto del decollo a una strada movimentata dell’allora periferia di Buenos Aires, mentre a Medellín l’aereo si schiantava su un’altra pista e contro un altro aereo. Forse per colpa del vento, che da allora ha fatto volare solo il suo canto: il canto di Carlos Gardel.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma