E così anche Nigel Farage, nientemeno che il principale promotore e vincitore del referendum britannico sull’Europa, se ne va prima ancora della “sua” Brexit. “Voglio riprendermi la mia vita”, ha spiegato il leader del Partito per l’indipendenza del Regno Unito -Ukip, la sigla in inglese-, annunciando l’addio alla politica. L’uomo che aveva tuonato contro il male assoluto dell’Unione europea si dimette perché, dice, la missione è compiuta. Abbandona la poltrona di capo del partito, non però il seggio di europarlamentare. E siccome Farage è il terzo politico britannico, dopo i conservatori David Cameron e Boris Johnson su fronti referendari opposti, ad aver gettato la spugna, e tre indizi, si sa, fanno una prova, ecco il senso della favola già finita: è più facile rompere che ricostruire. E’ più comodo protestare che proporre. E’ più bello sbattere la porta del Regno Unito in faccia all’Europa, salvo poi salutare con un “bye bye” giusto in tempo per non dover gestire neppure la complicata vittoria: quel lungo passaggio non solo burocratico di consegne fra Londra e Bruxelles, che potrebbe rivelarsi assai più dannoso per i sudditi di Sua Maestà che non per le ventisette nazioni rimaste in balia della tanto vituperata Unione. Quanto scotta, allora, quel referendum, se persino l’incendiario numero uno adesso preferisce mettersi da parte, anziché godersi il calore al caminetto. Forse anche lui ha compreso, sia pure fuori tempo massimo, che in nessuna isola del mondo, neppure nell’amata Gran Bretagna, è tutto oro quel che sembra luccicare. Che di fronte a fenomeni planetari come l’economia in crisi, il terrorismo incombente e le migrazioni senza fine soltanto l’unione può fare la forza e la differenza. Accendere i focosi sentimenti e risentimenti della gente: troppo semplice. Alle classi dirigenti semmai si richiede il contrario: la capacità non già di ingigantire le paure e le difficoltà, ma di aiutare i cittadini a superarle. Brexit è il fantasma del pregiudizio, del buttare tutto oltre la Manica. Ma l’uscita di scena di Farage, il controverso populista che pescava consensi ovunque, a destra e a sinistra, è un segnale istruttivo. Testimonia quanto sia effimero, alla prova dei fatti, soffiare sul vento della rottura senza aver capito neppure dove si andava a finire. Nessuna contestazione, nemmeno la più nobile e popolare che si possa sognare, può prescindere dal principio della responsabilità. Anche l’anti-politica deve imparare i doveri della politica.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi