Nessuna legge, neanche quella appena approvata sul testamento biologico, è più forte della coscienza. Per quanti sforzi faccia il legislatore per disciplinare l’attimo fuggente tra la vita e la morte, e che tormenta l’umanità dalla notte dei tempi, sarà sempre e soltanto la persona interessata, o i cari a lei più vicini, a dire l’ultima parola. Lo faranno col conforto della fede, se credenti. Ma sempre accompagnati dal sostegno di chi ci vuole bene e dalla competenza dei medici.
Appare, perciò, surreale lo scontro per partito preso su un provvedimento che è stato, invece, votato all’insegna del pragmatismo. E in modo, non per caso, trasversale fra senatori al di qua e al di là della maggioranza, essendo il loro intento principale quello di introdurre in Italia ciò che altrove esiste da tempo.
Dunque, chi è contrario all’eutanasia nulla deve temere: nessun provvedimento può violentare i cittadini al punto da indurli a uccidersi contro la propria volontà. E poi l’amore per la vita fa parte dell’identità stessa degli italiani. “Vivere” è il nostro punto cardinale.
Ma dare la facoltà a chi lo desideri di non trovarsi nella drammatica condizione in cui si sono purtroppo trovate tante persone prive di una legge (e ogni riferimento ai casi di Eluana, Welby, Fabo e altri è necessario), non significa voler far morire di fame o di sete ignari cittadini. Almeno la polemica politica su un terreno così difficile e angoscioso per tutti, andrebbe risparmiata.
Nel riempire un vuoto legislativo, il testo prova a riaffermare un paio di principi elementari e, peraltro, da tempo rispettati: che il paziente sia costantemente informato in modo da condividere -o rifiutare- il trattamento sanitario a cui è sottoposto. E che l’accanimento terapeutico non sia consentito mai. Nessuna autentica novità sotto il sole, quindi, se non un più puntuale riferimento a ciò che già avviene. Sarà l’esperienza pratica a dire se i nuovi parametri che nuovi non sono, funzioneranno. O se bisognerà, strada facendo, chiarirli ancora.
L’unica vera novità è il cosiddetto Dat (dichiarazioni anticipate di trattamento): il diritto del cittadino a stabilire in modo formale e, appunto, in anticipo, se e come curarsi quando non sarà più in grado di stabilirlo. Gli obiettori, specie nel mondo cattolico, temono la deriva verso il “suicidio assistito” e la scarsa “tutela dei sofferenti”.
Timori da ascoltare sempre, mentre l’Italia fa un passo in avanti.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi