Maradona o Pelé, oppure, andando all’indietro, Di Stefano o Garrincha: chi è stato il più grande giocatore di sempre? L’eterno interrogativo sulla sfida fra argentini e brasiliani è rispuntato con la recente scomparsa di Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé. Che, a differenza di Maradona, non ha goduto della stessa copertura televisiva di epoche diverse: è stato molto meno “visto” di Diego Armando, l’antagonista che si fece valere in anni in cui la tv faceva del calcio un rito più ben più globale e popolare. E poi Pelé, a differenza di Maradona, non ha mai giocato in Europa.
Perciò, sono stato fortunato: ho visto giocare e segnare Pelé il suo gol 1.001 sul campo.
Era una serata ormai estiva e le luci dello stadio Centenario di Montevideo, Uruguay, facevano risplendere le magliette bianche dei brasiliani del Santos quasi più di quelle giallonere a strisce verticali degli uruguaiani del Peñarol, la mia divina squadra del cuore. Un club che le massime autorità sportive proclameranno “campeón del siglo”, cioè il più forte e titolato del Novecento. Chiara e rivendicata l’origine italiana: Peñarol discende da Pinerolo in Piemonte. Ma questa è tutta un’altra storia.
Voglio, invece, raccontare il ricordo indelebile di un bambino che all’epoca stava per compiere dieci anni, il sottoscritto, e che vide Pelé in azione contro il Peñarol. La partita era importante: la supercoppa che si attribuiva a chi già aveva vinto coppe intercontinentali. Si disputò il 2 dicembre 1969, cioè nell’inverno italiano, che è estate “uruguaya”.
Siamo nel primo tempo e “O Rei” prende il pallone e avanza con movenze un po’ da atleta e un po’ da artista. Dribbla in corsa prima Roberto Matosas, difensore con la maglia numero 3, e poi -catastrofe- il cileno e mio idolo Elías Ricardo Figueroa, maglia numero 2, a sua volta proclamato fra i più grandi calciatori di tutti i tempi dalle autorità competenti. Presentatosi, Pelé, davanti alla porta sempre difesa dal “chiquito”, il piccolo, Ladislao Mazurkiewicz (piccolo, ma in realtà anche lui straordinario portiere), per “O Rei” infilare l’1 a 0, è stato uno scherzo. E così un attacco che cominciava in maniera difficile, cioè facendo fuori Matosas e Figueroa uno dopo l’altro, finiva con facilità disarmante. Ancora ricordo il silenzio dello stadio, e non solo di mio papà in piedi accanto a me e incredulo per una giocata, “jugada”, così bella e amara.
Ecco, a differenza di tutti gli altri calciatori brasiliani, argentini, paraguaiani (e, specie, uruguaiani del Nacional, la squadra rivale, ma meno titolata), che tante volte ho visto giocare al Centenario, Pelé non riuscivi a sentirlo come un avversario da battere. La sua classe superava anche la fede del tifoso, che è cieca. Un po’ come chi adora Djokovic o Nadal: impossibile non ammirare Federer, che è il Pelé del tennis.
Quel gol inflitto al mio Peñarol era rilevante anche per la statistica: il numero 1.001 che il gigante del pallone segnava nella sua carriera.
Ma il mio dolore di bambino non era perché il Santos andava in vantaggio. Era perché Pelé s’era liberato di Figueroa, l’invincibile eroe che, ragazzini, aspettavamo dopo le partite fuori dallo stadio per vederlo da vicino e per toccarlo (allora non c’erano i selfie).
Per la cronaca alla fine vinse il Peñarol 2 a 1, a conferma che la “garra”, la grinta uruguaiana non è leggenda: gli uomini della Celeste, anche quando indossano la maglia dei loro club, entrano in campo per vincere, non per partecipare. Ma non ricordo i nomi né le azioni di chi ci portò al trionfo.
Ricordo solo e perfettamente l’impresa di quel calciatore con la maglia e magia numero 10 che, sul lato destro del campo visto dalla mia tribuna, raggelava lo stadio, suggellando il primato storico dei gol.
Ora che “O Rei” se n’è andato con tutti gli onori che la sua gloria reclama, rincorro la mia infanzia e riscopro quanto possa essere dolce, cinquantaquattro anni dopo, un gol che il 2 dicembre 1969 mi faceva tanto male.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma