Autonomia differenziata, c’è un giudice anche a Roma

Se dovessimo fare la classifica della simpatia fra le principali istituzioni della Repubblica sicuramente, e non solo perché lo rivelano i sondaggi, il Quirinale e l’Arma dei Carabinieri finirebbero in cima all’apprezzamento degli italiani. Non occorre spiegarne il perché.

Ma a noi non piace vincere facile, e perciò preferiamo guardare in fondo alla lista: qual è l’istituzione che suscita, al contrario, maggiore avversità? (tolta l’Agenzia delle Entrate, che per pietosa solidarietà nei riguardi della sua funzione necessaria e impopolare, mettiamo subito fuori classifica).

Probabilmente non c’è un solo vincitore dell’antipatia. Dipende dagli umori dei cittadini, dall’inefficienza di questo o quel pubblico servizio.

Ma c’è un organo di giustizia, direi di alta giustizia, che per i non esperti può sembrare lontano e per gli esperti solo un covo di parrucconi: la Corte Costituzionale. La sua bella sede si trova proprio di fronte alla presidenza della Repubblica, a Roma. Eppure, non attrae neppure i selfie dei turisti.

Quei 15 giudici in carica per nove anni (5 eletti dalle Camere, 5 dalle magistrature e 5 nominati dal capo dello Stato), sono spesso visti come fumo negli occhi dai legislatori nazionali e regionali, e per forza: i giudici hanno il compito di rimuovere le loro leggi dall’ordinamento, se e quando contrastano con la Costituzione, che di tutte le leggi è la Legge.

Succede sovente, perché i legislatori sempre più spesso le leggi le scrivono coi piedi, oltre che in pessimo italiano.

Tale Corte è quanto di più importante un grande e libero Paese come l’Italia possa avere. Perché quel luogo di anziani signori, e per fortuna da qualche tempo anche signore, è l’ultimo baluardo di garanzie a beneficio dell’intera comunità. Anche se probabilmente risulta in fondo alla classifica dell’attrattiva, a causa del ruolo indecifrabile che svolge.

Ma per quanto distante appaia, voglio invece spendere il mio elogio per la Corte dopo la sentenza sull’autonomia differenziata. Una legge ordinaria voluta dalla Lega e promossa dal centrodestra dopo che il centrosinistra l’ha resa possibile con un’orrenda modifica della Costituzione: la riforma del “titolo V” nel 2001. Per inseguire, allora, il federalismo all’incontrario della Lega Nord (federalismo, dal latino, significa unire cose separate, non già separare ciò che è unito secondo l’“ampollosa” dottrina dell’Umberto Bossi dell’epoca), il centrosinistra mortificò il senso dello Stato. A tal punto da inventare il comico e tuttora vigente articolo costituzionale: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Si noti, oltre all’abuso delle maiuscole, la demagogia di aver messo lo Stato per ultimo in nome di un egualitarismo all’amatriciana e dell’“autonomisticamente corretto”, cioè partire dal basso verso l’alto per esibire “inclusività” istituzionale.

Dunque, l’autonomia differenziata è figlia del centrosinistra, pur avendo un padre di centrodestra.

Ma senza guardare in faccia a nessuno e in barba all’albero genealogico, la Corte Costituzionale non ha abbattuto la creatura a due teste (centrodestra di oggi, centrosinistra di ieri), bensì l’ha raddrizzata come un buon chirurgo. Usando sette volte il bisturi, ponendo paletti e precisandone l’interpretazione autentica. Di fatto, ha smontato e umanizzato il mostro a due teste firmato dal leghista Roberto Calderoli, federalista impenitente: l’autonomia si può fare, a condizione che sia un ramo dell’unità nazionale, della solidarietà, della sussidiarietà, cioè la diramazione ben fissata a un tronco verde, bianco e rosso che si chiama Italia. Nessuna fuga in avanti, nessun delirio più o meno “differenziato”: l’autonomia, che è il principio della responsabilità, si attua come un’opportunità e una ricchezza della Repubblica una e indivisibile. Non per mettere il Nord contro il Sud.

Ma la sentenza della Corte Costituzionale ha un richiamo molto importante anche per le regioni a statuto speciale, all’eterna ricerca di nuove competenze, pur avendone già molte da esercitare.

Con parole chiare e definitive, la Corte ha precisato che non esiste la possibilità di un’intesa “prendere o lasciare” -testualmente- col Parlamento, che deve poter sempre impiegare “il potere di emendamento”. Al Parlamento non si può chiedere un semplice atto notarile alle intese con le regioni e l’iniziativa legislativa dell’autonomia differenziata “non va intesa come riservata unicamente al governo”.

Insomma, neanche Palazzo Chigi può arrogarsi il piacere di decidere al posto del Parlamento, che non è un burocratico certificatore della volontà altrui, governativa o regionalista: ha il diritto di cambiare quel che vuole.

Dunque, non c’è posto per fantomatiche clausole di intesa con le regioni, ordinarie o speciali, che mettano il sovrano Parlamento di fronte ai diktat stile “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”.

E nessuno pensi di annacquare i poteri, ossia il ruolo, della Corte Costituzionale, unico vero arbitro in un Paese di tifosi.

In realtà, la Corte merita di salire in classifica dalle parti del Quirinale e dell’Arma dei Carabinieri. Simpatici, ‘sti parrucconi.

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige