Antonio Patuelli: il banchiere sia come un sacerdote, prudente, indipendente e imparziale. Lo diceva già Einaudi, rifondatore d’Italia

Antonio Patuelli è nato a Bologna e ha cinquantasette anni. Già alla vicepresidenza per due volte dell’Abi (Associazione bancaria italiana), attualmente è vicepresidente dell’Acri, l’associazione che rappresenta le Casse di Risparmio spa e le fondazioni d’origine bancaria.

Patuelli è stato deputato liberale nell’83 e nel ’92, vicesegretario del Pli per undici anni e sottosegretario nel governo-Ciampi, prima di diventare presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna. 

 

Robin Hood, alias il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ha finalmente vendicato i contribuenti italiani, chiedendo più soldi in tasse a chi dà i soldi coi tassi: le banche. Come l’avete presa? 

“Prima di tutto consapevoli del problema che ha l’Italia: un immenso debito pubblico. Ma l’abbiamo presa anche con uno stato d’animo particolare. In quindici anni, dall’emanazione del testo unico bancario che ha allineato l’Italia alla liberalizzazione dei mercati finanziari europei, la gran parte delle nostre banche ha realizzato grandi cambiamenti e vigorose innovazioni. Fino al 1993 le banche erano istituzioni scarsamente redditizie, mentre oggi sono società per azioni, aziende, imprese mai assistite dallo Stato. Di conseguenza, dove c’è alto reddito, più forte è la curiosità dell’erario”.

Ho capito: siete rassegnati…

“Quasi rassegnati. La manovra estiva ha colpito i settori con maggiori ristrutturazioni autonome e più alta redditività: banche, assicurazioni e aziende petrolifere. Con quali conseguenze negative? In Italia, si sa, vige il più elevato livello di tassazione europea in tutti i comparti. E’ il frutto del debito pubblico superiore a qualunque altro Paese, ma anche di una cultura che troppe volte si compiace di usare lo strumento fiscale con l’obiettivo di un riequilibrio sociale. Quando però si aumenta la pressione fiscale, il rischio è molteplice. Chi viene colpito, se agisce in regime di concorrenza inevitabilmente subisce l’operato altrui. Nel caso nostro subisce l’iniziativa delle banche che non hanno la loro sede in Italia, e che pagano le imposte secondo criteri di altri regimi fiscali”.

Quali altre insidie, a parte l’indiretto “aiutino” per gli istituti stranieri?

“Così non si favorisce la competitività delle banche, né si aiuta chi va a prendere quattrini in prestito alle banche, a cominciare dalle imprese. E lo stesso vale per le assicurazioni che si muovono nel mercato libero. Poi c’è un secondo rischio, e mi viene in mente la vicenda della benzina. Penso al rischio che una parte degli aumenti fiscali si scarichi sul consumatore. Alla pompa delle varie stazioni non mi pare che il prezzo della benzina sia tempestivamente calato con la riduzione del prezzo del petrolio. Le banche, dunque, hanno dato e daranno un ulteriore, cospicuo gettito. Spero che le autorità competenti ora rivolgeranno la loro attenzione nei riguardi di quanti evadono, non già e non solo nei confronti di quelli che pagano”.

Quant’è solido il sistema bancario italiano? E quant’è duttile col cittadino-cliente? 

“In realtà non esiste più un “sistema italiano”. Esisteva prima del ’93, con la legge bancaria del 1936 che prevedeva prezzi uniformi in ciò che era il cartello imposto dalla legislazione di allora e, successivamente, di quella post-bellica. Oggi c’è il “mondo bancario”, come preferisco chiamarlo. Un mondo fortemente competitivo. Ma anche un mondo duttile in proporzione all’attenzione che presta il cittadino. Esempio. Se vado a comprare casa, non prendo la prima che mi offre il mediatore immobiliare. Viceversa, questo atteggiamento non è ancora molto presente nel cittadino-risparmiatore, che va dall’intermediario finanziario, bancario o assicurativo e non mette la stessa, impegnativa attenzione che pone quando acquista casa. Se gli italiani cambiassero l’approccio, le banche diventerebbero molto più duttili e dialettiche col cliente. Specialmente dopo i casi delle obbligazioni dell’Argentina, di Cirio e di Parmalat, che hanno contribuito a far crescere una consapevolezza generale: la più alta redditività produce maggiori rischi. Oggi si sta più in guardia di ieri”.

Perché noi non rischiamo le conseguenze dell’insolvenza da mutuo che ha colpito il sistema bancario nord-americano (e che in Europa incombe soprattutto sul sistema spagnolo)? 

“Intanto, perché in Italia le banche danno meno del cento per cento del valore di mercato dell’abitazione: il mutuo può andare dal sessanta all’ottanta per cento. Invece negli Stati Uniti si dava il cento e persino più del cento per cento del valore-casa. Si incoraggiava l’indebitamento, come lo si spinge con le cosiddette carte di credito-revolving, la rateizzazione della spesa con alti tassi. Le abitazioni venivano acquistate senza aver alcun risparmio in proprio. Ciò poteva andar bene, finché i prezzi delle abitazioni salivano. Quando però i prezzi hanno preso la china discendente… Chi non riusciva a pagare rate, diventava insolvente per l’acquisto di una casa nel frattempo deprezzata: da qui la nota crisi dei “subprime”. A ciò s’aggiunga che il tutto è stato impacchettato in cosiddette salsicce, cioè le obbligazioni di questi mutui venivano vendute sul mercato. E chi le ha comprate, ha finito per trovarsi merce avariata”.

Il nostro sistema è più serio?

“E’ più prudente: non dà prestiti senza che il richiedente abbia qualche spicciolo di risparmio. Altrimenti saremmo all’affitto di un’abitazione, non all’acquisto di un immobile”.

Appunto: chi ha bisogno di un mutuo, di una mano dalla banca, in Italia incontra grandi difficoltà. Sarà mica giusto?

“Non trova difficoltà, trova facilità. Chi vuole comprare un immobile, può mettere in concorrenza le banche nelle località in cui vive, controllando inoltre su internet la pluralità di proposte, e trovando offerte differenziate le une dalle altre”.

Perché le banche non danno credito ai giovani, come lo si dà in Gran Bretagna?

“Vale lo stesso discorso. Non è che uno ha un’idea senza un soldo e le banche debbano rischiare solo e tutto loro. Non so se in Gran Bretagna davvero funzioni come viene pubblicizzato. C’è una maggiore disponibilità al rischio. Ma poi se ne accorgono: in Europa la prima banca a saltare per le note e recenti vicende, è stata britannica”.

Perché le banche non s’adeguano subito alla legislazione, come lamentano il Parlamento, i ministri e la stessa Banca d’Italia?

“In Italia abbiamo a che fare con 450 banche di credito cooperativo e 300 individuali o in gruppi. Se esce una norma nuova, va studiata: il Sole 24 ore non è ancora sostitutivo della Gazzetta Ufficiale. Spesso la norma è complicata: abroga, cambia, innova. E magari implica un regolamento ministeriale interpretativo e applicativo ancora da uscire…Il nostro è un legislatore “complicante” il più delle volte. Il sistema è oppresso dal peso legislativo”.

Ma il governatore Mario Draghi è un sopravvalutato o facciamo bene a volergli bene?

“I governatori sono da sempre personaggi di livello altissimo. Tutti, anche quelli che hanno compiuto, alle volte, errori. E poi sono a capo di strutture tra le più qualificate della Repubblica: Banca d’Italia, Farnesina e Difesa costituiscono l’eccellenza istituzionale”.

Banca d’Italia ha già dato, in tempi recenti, due presidenti del Consiglio (Lamberto Dini e Carlo Azeglio Ciampi) e un presidente della Repubblica, di nuovo Ciampi. Confidando nel suo vecchio fiuto politico: Draghi finirà a palazzo Chigi o al Quirinale? 

“E in tempi precedenti Banca d’Italia aveva dato pure Luigi Einaudi… Non credo che l’attuale governatore uscirà dall’istituzione prima della fine del suo mandato, che è a termine e non più illimitato”.

Perché le fondazioni bancarie sono così spilorce nel sostenere la ricerca italiana?

“Non sono spilorce, assolutamente. Sostengono la ricerca nelle forme più varie, ma a seconda dei territori. La Cariplo può farlo per istituti di ricerca in Milano o in Lombardia. A Ravenna, dove non abbiamo analoghi istituti regionali, si sostiene l’Università”.

Ma perché finanziano i restauri di arte e le iniziative culturali molto meno rispetto a ciò che si fa, per esempio, negli Stati Uniti?

“In Italia le fondazioni bancarie hanno fatto passi da gigante negli ultimi dieci anni. In Usa c’è una tradizione più antica. In più, il fisco incoraggia i privati a queste iniziative”.

Lei è stato parlamentare e vicesegretario del Pli (Partito liberale italiano): piena prima Repubblica. Si stava meglio quando si stava peggio? 

“Che si stesse peggio, è da dimostrare. De Gasperi ed Einaudi sono stati i rifondatori dell’Italia. Un periodo d’oro che non a caso ha prodotto anche il miracolo economico. Il mio maestro si chiamava Giovanni Malagodi, coerente erede di Einaudi. Rimango dell’idea che quell’eredità sia da recuperare nell’interesse nazionale”.

Ma c’è più liberalismo oggi senza il Pli, oppure quando solo il piccolo Pli rivendicava quella ben più grande tradizione?

“Non lo so. Oggi il liberalismo è meno concentrato e più diffuso, ma anche molto disperso”.

Chi è più liberale tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni?

“Non risponderò mai. Sono lontanissimo dalla politica”.

E tra Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini?

“Einaudi ha insegnato che un banchiere debba non solo essere ma anche apparire imparziale come il sacerdote. Lontano dalle contese politiche, e dalle contese in generale. Il banchiere deve garantire indipendenza a tutti. Io, poi, mi sento quasi un liberale svizzero di origine italiana…”.

Lasci stare la Svizzera, qui siamo gente di passione. Tra i politici moderni, italiani e stranieri, chi è stato o è il più liberale?

“Parlo solo dei morti. E perciò, oltre a Einuadi, indico De Gasperi e Adenauer. Perché la libertà di mercato non esaurisce il liberalismo. E nei Paesi sconfitti essi hanno fatto cose superiori di altri in tempo di pace”.

E’ giusto o no che una banca italiana sostenga la rinascente compagnia di bandiera italiana?

“Le banche sono imprese: ciascuna sceglie in libertà il rischio da assumere”.

Il vendicatore Tremonti ha inventato un neologismo -il “mercatismo”- per poter più facilmente criticare gli eccessi di mercato. Il mercato deve sottostare a regole oppure è una contraddizione in termini?

“Il mercato non può vivere nell’anarchia. Va garantito da regole. L’importante è che le regole non soffochino il mercato”.

Ma il tanto celebrato “consenso informato” che le banche sono teoricamente tenute ad assicurare al cittadino-cliente, da uno a dieci quant’è assicurato nella realtà?

“Fra otto e dieci. Tolga pure l’avverbio “teoricamente”. Il cliente è inondato di carta. Dovrebbe, però, leggersela”.

All’estero quant’è forte il credito italiano?

“Avevamo un sistema autarchico fino alla fine degli anni Ottanta. Da allora le banche hanno riacquisito le posizioni che avevano prima della seconda guerra mondiale. In pochi anni s’è recuperato ciò che era stato realizzato in decenni”.

Non crede che il “made in Italy” meriti il conforto di banche italiane, come succede per francesi, tedeschi, spagnoli, attentissimi nel promuovere gli sportelli dei loro più blasonati istituti all’estero (dalla Deutsche Bank a Santander, per non far nomi)?

“Sì, ma non è una chiave vincente. I Paesi che concorrono all’Olimpiade in corso a Pechino sono oltre duecento. Le nazionalità nella sola Cina sono ottanta. E’impossibile per chicchessia avere sportelli ovunque. Il meccanismo va organizzato con una rete di banche corrispondenti”.

Pubblicato il 17 agosto 2008 sulla Gazzetta di Parma