Prima di entrare in campo per sfidare, a casa loro, i calciatori più forti del mondo, Obdulio Varela, che era l’alto e corpulento capitano dell’Uruguay, si voltò per l’ultima volta verso i suoi compagni, e disse: “Ragazzi, qui siamo undici contro undici. Quei giapponesi che urlano là fuori, non contano”.
Per lui, che mai prima di quel giorno, il 16 luglio, aveva lasciato il suo Uruguay, e mai più dopo quel giorno l’avrebbe lasciato, “giapponesi” voleva dire “stranieri”. Ce l’aveva coi duecentomila brasiliani che già festeggiavano sugli spalti la cronaca di una vittoria annunciata. “Brasile campione del mondo!”, strillavano in prima pagina i quotidiani pronti in tipografia. Il discorso ufficiale era stato scritto per celebrare gli invincibili, e solo loro, a fine partita. “Perder por poco”, perdere di misura, era l’unica raccomandazione che i dirigenti uruguaiani facevano ai giocatori della Celeste. Salvare l’onore, ecco, della tradizione calcistica dell’Uruguay, vincitore del Mondiale nel 1930 dopo i due ori olimpici del ’24 e del ‘28.
Perciò, l’epopea del Maracaná, che per il Brasile rappresenterà la più dolorosa disfatta della sua storia (e la storia del Brasile è soprattutto storia di calcio), comincia con quell’atto ribelle e orgoglioso del “negro jefe”, il capo nero, come i “ragazzi” chiamavano Obdulio Varela con affetto e con rispetto, dandogli del Lei. Il capitano veniva dalla povertà. Non aveva finito la scuola dell’obbligo e aveva nove fratelli. Maglietta e ruolo da numero 5 in campo, per guadagnarsi la vita aveva fatto il muratore, il venditore di giornali per strada (“el canillita”, come dicono nella capitale Montevideo), e il pugile. Sul terreno di gioco comandava a gesti e a parole. Era “el negro jefe”, un vero capo dalla pelle scura come molti tra i talenti migliori, a cominciare dal più bravo dei bravi, Edson Arantes Do Nascimento, detto Pelé. Che per la fortuna dell’Uruguay, nel 1950, l’anno della leggenda, aveva nove anni. Eppure, neanche quel bambino ha dimenticato il “Maracanazo”, come fu battezzata in spagnolo la sconfitta dei più forti ad opera dei più agguerriti. La “garra”, la grinta uruguaiana è diventata, da allora, uno stile di gioco, l’identità della squadra che non molla un pallone, pur vestendo la maglia più delicata dell’universo: la Celeste, che a Maracaná, Rio de Janeiro, è il divino colore del cielo.
Ai padroni di casa, dunque, bastava un pareggio per sollevare la Coppa. E dopo due minuti del secondo tempo stavano addirittura vincendo 1 a 0. Ma Obdulio il capitano prese il pallone sottobraccio e andò a lamentarsi con l’arbitro per un’azione confusa. Non gli interessava l’impossibile annullamento del risultato, ma soltanto prendere tempo per far sbollire gli animi del popolo in estasi. E così il gioco riprese non più sull’onda della baraonda nelle tribune, ma “undici contro undici”. Come voleva il capitano.
E allora entrano in scena gli altri due miti dell’impresa, e attenzione Azzurri che affronterete l’Inghilterra proprio nel girone con l’Uruguay: forse c’è un insegnamento, per chi sogna la rivincita al Maracaná. Forse quella favola racconta qualcosa a chi può battersi quattro Mondiali contro cinque, Italia contro Brasile, chissà, l’ennesima finale delle finali tra le due Nazionali più titolate nella storia del calcio.
La prima lezione è firmata da Juan Alberto Schiaffino, detto Pepe, che al sessantaseiesimo pareggia. Pepe fu uno dei più grandi registi di sempre e indossò sia la maglia Celeste, sia l’Azzurra, giocando inoltre nella Roma e nel Milan. Un uruguaiano-italiano “che spense ogni nostra ambizione”, come dissero i brasiliani battuti e feriti. Tuttavia, col pareggio l’Uruguay salvava l’onore, ma perdeva il Mondiale.
E perciò a dieci minuti dalla fine è il momento di Alcides Ghiggia, detto Chicco, un altro uruguaiano-italiano che giocherà per entrambe le Nazionali, “provando lo stesso orgoglio”. Ghiggia, che oggi ha ottantasette anni ed è l’ultimo sopravvissuto del Maracaná dopo aver giocato anche con la Roma, la rivive con semplicità: “Ho visto un buco nella porta e ho tirato lì”. Piccoletto e indomabile. Era l’ala destra di altri tempi che volava verso l’area avversaria e colpiva implacabile, come fece al Maracaná, ammutolendo lo stadio all’istante.
Il resto dell’epopea continua con Obdulio, il capitano che, nel dopo-partita, per festeggiare passa di bar in bar stando bene attento a non farsi riconoscere, e abbraccia i brasiliani affranti (per lui non erano più “giapponesi” che urlano, ma solo sudamericani che piangono).
Per i brasiliani la vittoria che non venne, si trasformò in tragedia nazionale. “Quello è l’uomo che ha fatto perdere il Brasile”, dicevano i genitori ai figli, indicandolo col dito puntato, del povero portiere Barbosa, accusato di non aver saputo parare il gol immortale di Ghiggia. Furono cambiati per sempre i colori della maglia nazionale e, per anni, le guide hanno continuato a mostrare con sofferenza ai turisti in visita allo stadio la porta dell’uno-due Schiaffino-Ghiggia.
Ma Ghiggia rimette un po’ di verità nella leggenda: “Prima della finale li avevamo affrontati tre volte nell’ultimo mese e mezzo e anche battuti una volta. Non c’era una grande differenza fra noi. Ma noi li conoscevamo meglio di quanto loro conoscessero noi”. Sessantaquattro anni dopo, è di nuovo Mondiale in Brasile. Ghiggia, Schiaffino e capitan Varela, gli artefici del Maracanazo, furono tre stelle del glorioso Peñarol di Montevideo, “la squadra sudamericana del ventesimo secolo” -com’è stata proclamata dalle autorità competenti- con un’antica e meravigliosa storia italiana fin dal nome, che discende da Pinerolo.
Ma questa è un’altra storia. Per ora basti la profezia del Maracaná: i grandi sogni non muoiono all’alba.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma