L’italiano non si parla, si canta. Sarà per questo che la musica lirica parla italiano. Con dolcezza. Andante. Allegro con brio. Non saprei immaginare un acuto di Pavarotti senza l’impeto. O la melodia di Dante senza la divina Beatrice. Oppure un crescendo della Ferrari senza il rombo. La lingua italiana accelera sempre. Fa le curve su due ruote, ché su quattro sarebbe troppo semplice per i suoi creativi guidatori e suonatori. Sorpassa con le doppie, autentico tormento per chi non è nato nella patria delle mamme, appunto con due emme. Come “soprattutto”, la madre di tutti i tormenti.
Se dovessi scegliere un elemento per descriverla, la lingua, sceglierei il fuoco. Non l’acqua, che evoca mansuetudine, mentre l’italiano incita alla passione. Non l’aria, che offre solo respiro: la lingua del sì soffia invece lontano come il vento. Non la terra, perché l’italiano è lingua dell’universo. Tant’è che ha lasciato ai dialetti la consolazione del campanile. Ma comunque la terra proprio no, perché l’italiano non è un fiore al quale occorra un posto per crescere, ma è il profumo di quel fiore. Perciò si può sentire ovunque come un concerto che si propaga senza confini. Non è forse “Volare” la canzone italiana più conosciuta oltre l’Italia, canzone che peraltro si chiama come nessuno infatti la chiama, “Nel blu dipinto di blu”?
Se dovessi usare un colore per dipingerla, la lingua, userei il rosso. Come l’amore. Come la Ferrari. Come il cielo azzurro quando s’impunta col sole che vuole -testardo!- albeggiare. L’italiano è dolce e furente. “Dolce vita” non è forse espressione soltanto italiana?
Impossibile, allora, cercare d’imbrigliare una lingua che non si nutre di parole ma di sogni, che è solare e solitaria. L’italiano sfugge ai richiami quanto la libertà, che è incontenibile: bisogna soltanto inseguirne la corsa di metafore ricche e di punteggiatura austera, e di accenti lievi, e di gesti con la mano che accompagnano i vocaboli come la bacchetta di un direttore il suono dell’orchestra per portarlo non si sa mai dove.
L’italiano è una lingua che comincia ma non finisce. Infinita e rotonda come il globo a cui paternamente si rivolge e da cui maternamente proviene. Come un canto che dura da mille anni e che da altri mille ancora è disceso dai vicoli di Roma per poi rinascere e poi risorgere. E oggi salire alto come l’acuto di una nota e il volo di un gabbiano, dando al mondo una scala di umanità e un senso di bellezza.
(Tratto dal mio libro “Sulla punta della lingua”, Società Dante Alighieri, Roma, 2006)