Gli storici non amano molto i giornalisti, perché li considerano superficiali. E i giornalisti non amano troppo gli storici, rimproverati di non scrivere per il grande pubblico, ma soprattutto per farsi capire tra loro. Mario Cervi era una delle poche figure a cavallo fra la cronaca e la storia che nessuno avrebbe potuto accusare di essere un facilone o di comunicare in modo astruso. La sua penna scivolava con chiarezza e intensità, sia quando polemizzava dalle pagine del “Giornale”, sia quando, dal 1979, cominciò a raccontare la “Storia d’Italia” nei libri con Indro Montanelli, maestro con cui affinò l’arte più importante del mestiere: saper scrivere bene. “Io scrivevo e lui metteva la firma, ma le introduzioni erano sue e davano il tocco di grazia”, ricorderà l’allievo diventato grande. Suonano, allora, disperatamente schiette le parole che Gian Galeazzo Biazzi Vergani, già condirettore del quotidiano, ha usato per la scomparsa, ieri, di Mario Cervi a novantaquattro anni: “Una grande disgrazia”. Non solo per il Giornale, che Cervi aveva contribuito a fondare nel 1974, quando pensare e scrivere in maniera “controcorrente” (come si sarebbe chiamato l’irriverente corsivo di prima pagina), era virtù di pochi in quegli anni violenti. Il lutto colpisce l’intero giornalismo, perché Cervi incarnava uno degli ultimi esempi di una generazione abituata a dire pane al pane. Ma a dirlo col fioretto, non con la clava. Impossibile trovare un suo articolo o una sua apparizione in tv in cui sia stato protagonista di risse. Era, invece, il testimone di un modo e di un mondo lontani dalle “mode progressiste”. Un conservatore, certo, ma non di altri tempi. Perciò aperto alle novità e alle libertà.
Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di formarsi alla “scuola” di quella generazione, sa che il giornalismo non è chiamato a cambiare il mondo, quasi fosse un surrogato della politica. E’ chiamato a raccontarlo, il mondo, “alla Cervi”, con descrizioni e riflessioni a volte candide come la criniera dei capelli bianchi e ondulati che portava con vezzo giovanile. Raccontare con onestà e con la forza invincibile delle proprie opinioni: questo ha fatto Cervi per settant’anni. Sapendo che solo ai lettori sarebbe spettato il giudizio che conta in una professione da esercitare “senza padrini e senza padroni”, secondo la celebre massima montanelliana.
Mario Cervi, nato a Crema il 25 marzo 1921, era entrato giovane cronista al Corriere della Sera (1945), dopo la prigionia in Germania. La gavetta l’aveva portato a fare l’inviato di politica estera, coltivando l’interesse per la storia. Dopo trent’anni di Corriere, Cervi passò a “inventare” il Giornale con Montanelli, che seguì nella fugace esperienza de La Voce. Per poi tornare da dove era ripartito: al Giornale da direttore. Come quell’Indro che al culto dei lettori aveva dedicato il cielo in una “Stanza”, anche Cervi ha risposto fino all’ultimo alle lettere dei sempre amati lettori.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma