Non è vero che Enzo Bettiza sia stato un “pittore mancato”, l’aspirazione di gioventù che lo portò a iscriversi, invano, all’Accademia di Belle Arti nella capitale. In realtà, poche opere come i suoi articoli e i suoi libri, che non sono scritti soltanto da un giornalista brillante e rigoroso quale fu, ma soprattutto da uno scultore della parola come non ce ne sono più, confermano che quest’uomo di frontiera scomparso quasi al confine della vita, a novant’anni, per tutta l’esistenza ha dipinto, ha ritratto, ha raccontato con la maestria del raffinato cesellatore della lingua italiana “un mondo che non c’è più”, come diceva da esule, sempre.
Non c’era più, per cominciare, la Spalato in cui era nato e cresciuto il 7 giugno 1927 e che, nonostante l’andirivieni della storia in quel territorio conteso -o forse grazie ad esso-, gli aveva dato la marcia in più delle molte lingue e dei tanti punti di vista con cui frequentare, e perciò meglio capire e saper raccontare, l’universo. Il suo era la Dalmazia e una famiglia dell’alta borghesia. Ma era svanito con l’arrivo dei partigiani di Tito e del loro nazional-comunismo violento e carico di odio. Cosa che costrinse i Bettiza, come migliaia di altri italiani, ad abbandonare la terra natale, senza però che si auto-alimentasse il pregiudizio nella mente aperta e nel cuore già europeo del giovane Enzo. Che diventerà anti-comunista e implacabile demolitore del regime sovietico, ma con giudizio, cioè a ragion veduta e ponderata. Dopo essere stato, oltretutto, affascinato, quand’era ragazzo, dall’utopia rossa.
Per campare, il ventenne, profugo e sopravvissuto anche una grave malattia ai polmoni, s’inventa espedienti: fa il contrabbandiere e vende libri. Finché comincia, al settimanale “Epoca” nel 1953, la gavetta della bella e buona scrittura, perché la sua narrazione non è comunicazione insipida e banale, ma trascina la riflessione con energia: dalle cose viste affiorano quelle pensate.
La professione prosegue alla “Stampa”, della quale Bettiza sarà corrispondente prima da Vienna e poi da Mosca. Se già la biografia ne decretava un destino da italiano del mondo, l’esperienza all’estero ne fortifica la vocazione naturale e ne affina l’analisi. Quando scrive, lui sa di che parla. E non lo fa con la pedanteria del saggista, ma con la leggerezza del romanziere.
Nel 1964 il giornalista e già scrittore diventa inviato speciale del “Corriere della Sera”. Negli ultimi e lunghi anni torna all’origine, editoralista de “La Stampa”.
Ma bisogna fermarsi al 1974 per cogliere la svolta che lo incorona come un anticonformista nell’”Italia che belava a sinistra”, come diceva Indro Montanelli di quel tempo e di quel Corriere della Sera, abbandonato “dall’argenteria di famiglia”: così fu battezzato il gruppo di quanti avrebbero fondato “Il Giornale” (all’epoca ancora “nuovo”). “Con me si schierarono quasi al completo le firme più autorevoli del giornale, e Bettiza in testa”, ricorderà Montanelli. Non potevano essere più diversi, quei due grandi, e quindi si completavano a dispetto l’uno dell’altro. Nel suo ultimo libro “Soltanto un giornalista” curato da Tiziana Abate, Indro pennella le differenze di carattere, e non solo, col suo condirettore: “Geneticamente, Bettiza è un italiano anomalo: nato a Spalato, è il classico e forse più completo intellettuale mitteleuropeo, nutrito e intriso di cultura tedesca e slava, da cui ha tratto una seduttiva vena di follia. Io sono un italiano che più italiano non si può: il mio sangue lo è, senza contaminazioni, da oltre ottocento anni”.
Il pessimista Montanelli e l’uomo che invece ama rischiare, Bettiza: l’idillio finisce, incredibilmente, per ragioni politiche, quando Indro non condivide l’apertura di credito che Enzo vorrebbe concedere a Bettino Craxi. Del quale successivamente finirà per diventare eurodeputato nel Partito socialista, dopo essere stato senatore ed europarlamentare nel Partito liberale. E’ il periodo “lib-lab” di Bettiza, inevitabile la rottura con Montanelli, allergico a quelle alchimie.
Eppure, del suo collaboratore-principe (anche per il modo distaccato di vivere e intendere la vita), quasi invidia, fingendo di pungerla, la tendenza ad avere la testa fra le nuvole nelle cose concrete: “Parlare di denaro con Bettiza era come parlare di Hegel con Tyson. Per lui era implicito che, una volta fondato il “Giornale”, qualche anima santa del Paradiso avrebbe provveduto. Era capace di discettare per ore della linea politica o della grafica che avremmo dovuto inventare, ma bastava accennare a una minima difficoltà pratica perché si distraesse immediatamente”. E ancora: “Bettiza è un cavallo di razza e io gli lasciavo ben volentieri il ruolo di fiore all’occhiello che lo esentava da tutte le grane della gestione. Anche perché se sul piano astratto Bettiza è di una lucidità esemplare, nella vita quotidiana è il caos personificato”.
Si sente, nella prosa, un affetto che mai è venuto meno, e che col tempo è stato ricomposto, nonostante il litigio aspro e mai rinnegato dai due contendenti che dividevano anche “la stanza del lavoro”.
Del resto, qui si parla della generazione che non s’è mai fatta sedurre dal potere -nemmeno quando indossava i panni della politica-, che visse con intensità, che esprimeva un pensiero forte, che raccontava divinamente.
Tra le pubblicazioni svetta il portentoso romanzo “I fantasmi di Mosca” (volume I e II, 1993), ampio affresco di intrighi e di meditazioni sulla tragica epoca di Stalin e l’illusione comunista vista e vissuta da Enzo Bettiza negli anni della Guerra Fredda.
Ma non poteva che intitolarsi “Esilio” il libro che gli valse il premio Campiello nel 1996. La scrittura fu la sua patria.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma