L’Unione europea e l’esercito che non c’è

Se non ci fossero stati la guerra di Vladimir Putin e il disimpegno occidentale di Donald Trump, difficilmente i leader europei avrebbero deciso di riunirsi a Londra, domenica prossima, per vedere come dar vita a una comune politica di sicurezza militare.

Se Ursula von der Leyen non avesse anche lei -come l’Italia, che lo richiede da tempo- convenuto sulla necessità di “sospendere le regole di bilancio per spese nella difesa”, cioè superare l’inattualità del Patto di stabilità di fronte alle gravi crisi incombenti, i governi si sarebbero a lungo crogiolati all’ombra della Nato.

E comunque l’Unione europea è nata, estendendosi oggi a 27 Paesi (e povera Gran Bretagna: dopo la Brexit non vede l’ora di tornare a casa, ma è troppo orgogliosa per dirlo), all’insegna della riconciliazione.

Dal 1945 in questa parte del mondo, pur con eccezioni subito affrontate, non ci si spara più. Parlarsi e persino litigare sbattendo i pugni e le porte, è molto meglio che ammazzarsi. L’abbiamo tutti capito da 80 anni.

Ma alla vigilia dell’incontro che può cambiare il destino di quest’Europa risvegliata da Putin e da Trump, dalle verità di Ursula e da una pace che non te la regala nessuno -dunque da coltivare con la consapevolezza che altri e altrove continuano imperterriti a fare la guerra-, la filosofia dell’”armiamoci e partite” non vale.

E’ ormai chiaro -lo dice anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto-, che un esercito europeo può nascere solo dalla somma e dalle specialità delle singole Forze Armate nazionali. Tutte, però. Del resto, già la Nato funziona così.

Tuttavia, la prima linea è uguale per tutti, a prescindere dalle potenzialità, dalle risorse, dai ruoli differenti d’ogni Paese. Intanto, il distante Trump si prepara a firmare col presidente ucraino Zelensky l’intesa-capestro per Kiev sulle “terre rare” e diffonde un video surreale realizzato con l’intelligenza artificiale su come sarà la futura Striscia di Gaza tra sogni estivi e ballerine. Ma qui in Europa si discute sui soldati per ora “annunciati”.

“Le truppe non si inviano come i fax”, manda a dire Crosetto al presidente francese Macron e al primo ministro britannico Starmer, i leader che prevedono l’impiego di 30mila soldati europei in Ucraina. “Prima di mandare militari, bisogna essere certi di cosa si fa”, gli fa eco Matteo Salvini, tiepido sull’ipotesi -accarezzata, però, dal governo- che essi possano operare sotto l’Onu. Anche se per garantire la sicurezza per l’Ucraina in futuro, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pensa a coinvolgere la Nato.

Il punto non è più l’invio di soldati, che oltretutto sono tutti professionisti. L’Europa ha compreso che deve muoversi davanti all’abbandono dell’Ucraina da parte di Trump.

Il punto è, invece, in quale veste, al comando di chi e per fare che cosa in modo coordinato e condiviso.

Perciò, niente fughe in avanti, da irresponsabili. Niente colpi di mano, da incoscienti. L’esercito europeo può prendere forma sull’onda della razionale e profonda consapevolezza che il nostro futuro non dipende più dagli altri, ma solo da noi.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova