Per dare ancor più forza alla denuncia di un crimine che è specifico -la violenza di un uomo che uccide una donna-, è stato perfino coniato un neologismo: il femminicidio. Per dare più voce alle vittime di comportamenti maschili che siano aggressivi o molesti, il Parlamento ha legiferato più volte. Ha aumentato le sanzioni previste. Ha fatto diventare da giallo a rosso -cioè più severo-, il codice di norme che rafforzano le tutele dagli atti persecutori e dai maltrattamenti.
Per diffondere nella società la cultura del rispetto e infondere alle autorità il dovere di contrastare con ogni mezzo dell’ordinamento la drammatica realtà delle donne uccise dagli uomini -in media un delitto ogni tre giorni-, sono stati promossi convegni e manifestazioni. E poi assemblee nelle scuole e nei luoghi di lavoro. E pure tribune televisive e pubblici incontri non solo con le forze di polizia chiamate a reprimere il reato, ma anche con chi s’è dedicato a studiare il fenomeno per dirci che si può fare per prevenirlo. Prevenire il femminicidio è l’unica soluzione per estirparlo.
Come se non bastasse, nell’appena trascorso 25 novembre s’è ricordato la giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dalle Nazioni Unite giusto 25 anni fa. E non più tardi di ieri l’ergastolo a Filippo Turetta per il brutale omicidio di Giulia Cecchettin, 22 anni, una delle vicende di cronaca nerissima che più ha colpito, indignato e commosso gli italiani, ha confermato che nelle aule di giustizia vale la generale e nuova sensibilità che si respira nel Paese sul tema.
Eppure. Eppure, nelle stesse ore a Verona un quarantenne, a cui era già stato applicato il braccialetto elettronico con divieto di avvicinamento alla sua compagna, è finito agli arresti domiciliari per maltrattamenti. Alla donna si sarebbe rivolto con queste folli parole: “Ha fatto bene Turetta a uccidere la Cecchettin, andrò in galera sorridendo, ma ti faccio fuori”.
Nelle stesse ore in provincia di Verona un quarantenne è stato indagato per l’omicidio della compagna di 27 anni e mamma di una bambina di 5, trovata impiccata nella doccia della loro abitazione. “Venite, la mia compagna s’è impiccata”, ha avvertito i carabinieri l’uomo ora sospettato.
Sconcertante e desolante: la cruda e crudele realtà supera gli ergastoli e i cortei. Oltrepassa l’implacabile legislazione contro le violenze e le civili proteste delle scarpe e delle panchine rosse. Scavalca ogni insegnamento familiare, scolastico, istituzionale al rispetto di genere e alla parità dei diritti. Come se nel frattempo, cioè da anni, non si fosse formata un’opinione pubblica consapevole del “mal di femminicidio”.
Si dirà: casi estremi e isolati o patologie di pochi non inficiano il forte e crescente messaggio contro la violenza, acquisito dalla stragrande maggioranza di uomini e donne.
Ma come dar torto a Gino Cecchettin, il povero padre di Giulia, quando, a condanna appena pronunciata per l’assassino di sua figlia, commenta così: “La mia sensazione è che abbiamo perso tutti come società”.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova