Ma nessuno, né in Siria né nel mondo, rimpiangerà il regime feroce di Bashar al-Assad

Nessuno rimpiangerà i 24 anni del regime feroce di Bashar al-Assad, moltiplicati per due e oltre, avendo la sua famiglia governato la Siria col pugno di ferro per 54 anni di fila. Nessuno avrà nostalgia dei 14 anni di guerra civile con decine di migliaia di morti, feriti, espatriati.

Dal colpo di Stato del padre nel 1970 alla fuga del figlio -tutti i despoti prima o poi scappano dalle loro malefatte-, stiamo riscoprendo un orrore dopo l’altro, come in queste ore rivelano le prigioni “liberate” e battezzate “il mattatoio umano”. Dall’inizio della guerra vi sarebbero scomparse centomila persone, specie oppositori, un terzo dei quali dopo torture.

Ma la caduta del tiranno e l’arrivo dei nuovi padroni guidati da Abu Mohammed al Jolani, capo dei ribelli siriani dalla militanza jihadista forse dietro le spalle (o almeno così lui vuol far credere per ripulirsi l’immagine di islamico radicale), pone tre questioni al resto del mondo.

La prima riguarda l’Europa: assisteremo a una nuova ondata di profughi, e chi li accoglierà? Come altri Paesi dell’Ue anche l’Italia ha deciso di sospendere le richieste d’asilo dei siriani.

Poi bisogna stare attenti sulla repentina conversione di al Jolani da combattente in armi con la barba lunga a leader politico con prime parole rassicuranti: significa, in concreto, che Damasco rinuncerà a esportare terrorismo e guerre sante -leggi jihad- in giro per il globo? Oppure che l’Occidente male farebbe a fidarsi di lui e del primo ministro -Muhammad Bashir- che ha designato per la transizione?

L’ultimo interrogativo concerne il Medio Oriente, dove l’Iran, grande protettore di Assad assieme alla Russia -il fuggiasco s’è infatti rifugiato a Mosca-, perde una pedina importante nel grande scacchiere della sfida con Israele. La fine di Assad avrà, dunque, una ricaduta anche sul regime degli ayatollah a Teheran, e di che tipo?

Intanto, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, da sempre sostenitore con gli Stati Uniti del cambio di regime in Siria e perciò oggi tra i vincitori rispetto al grande perdente, Vladimir Putin, in una telefonata con la nostra presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha definito “un’aggressione” l’avanzata militare di Israele in Siria. Ha risposto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu: è un’azione “focalizzata solo alla salvaguardia della nostra sicurezza”. Nel rompicapo del Medio Oriente tutto si incastra nella catena dell’azione-reazione armata e nessun Paese dell’area intende stare a guardare l’iniziativa altrui.

Lo sa anche Palazzo Chigi, che oltre ad avere soldati italiani in Libano e a chiedere garanzie ai nuovi arrivati a Damasco sulla tutela delle minoranze cristiane, ha convocato per venerdì una riunione del G7 per le tre crisi in un unico scenario: Ucraina, Medio Oriente e Siria.

La via di Damasco è stretta e piena di incognite. Ma l’Italia e l’Ue devono mettere alla prova la svolta inattesa. Ricordando che anche nella storia recente, dall’Iran all’Afganistan, troppe volte i liberatori si sono trasformati in oppressori all’insegna del fondamentalismo.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova