Se l’Australia vieta Facebook e Instagram ai sedicenni

Che bello quando la politica, riappropriandosi del suo ruolo alto e nobile, si divide affrontando problemi reali e comuni a tutti i cittadini.

La lezione viene da lontano, eppur ci tocca da vicino. Pochi giorni fa il Parlamento australiano ha approvato una legge che vieta ai minori di 16 anni l’accesso alle principali piattaforme frequentate in Rete, da TikTok a Instagram, da X a Facebook.

Non è il primo Paese a legiferare in materia, ma il più severo nella soluzione adottata. Adottata con un’ampia e trasversale maggioranza, pur essendo l’iniziativa partita dal governo laburista.

A prima vista la decisione si presta a una valanga di obiezioni.

Intanto, i tempi: siamo in ritardo di almeno un’era tecnologica, i buoi sono scappati da un pezzo dalla stalla digitale. Poi il fascino del proibito, quasi un invito alle generazioni che sono cresciute più col tablet che col biberon, a violare regole già di difficile applicazione. E ancor più complicato il controllo e più ardua addirittura la sanzione, che si prevede molto salata per le aziende che non rispettano la novità.

Ma poi siamo sicuri che il mondo virtuale sia così nemico di quello reale?

Quest’ultimo interrogativo in verità contrappone le scuole di pensiero e rappresenta la ragione profonda della misura a salvaguardia di ragazze e ragazzi. I quali, fra i non pochi problemi della prigione digitale in cui spesso si rinchiudono, c’è quello di una fragile comunicazione vera, cioè esistenziale e sentimentale, fra giovani, in famiglia, al lavoro. Pure nelle scuole che tollerano il ricorso alle piattaforme non come arricchimento della conoscenza e dei rapporti in classe, ma quasi al posto dell’imparare.

Già tre anni fa il Senato della Repubblica non australiana, ma italiana aveva compiuto un’indagine conoscitiva sull’“impatto digitale sugli studenti con particolare riferimento ai processi di apprendimento”.

La maggior parte degli specialisti consultati aveva lanciato l’allarme contro l’abuso di smartphone e videogiochi. Si rischiano “danni fisici” e “danni psicologici” (dipendenza, irascibilità, diminuzione dell’empatia), “ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza”.

Ecco che cosa sta spingendo i legislatori di vari Paesi a intervenire in un campo minato, perché non si può comprimere il diritto alla libertà, nel tentativo di rendere più “umana” la vita già alle prese con l’intelligenza artificiale. Non si può fermare il mondo, perché io voglio scendere.

La nuova e molto discutibile legge australiana ha però un merito: richiamare le classi dirigenti a guidare, anziché a subire, la grande rivoluzione digitale. A confrontarsi con le piattaforme con rigore, invece dell’anarchia che “governa” la Rete. A non lasciare che i regimi illiberali e i potenti facciano quello che vogliono. Perché i nativi digitali siano più forti e più consapevoli che un’emozione vera è imparagonabile a mille emoticon e un abbraccio reale a un milione di faccine virtuali.

Pubblicato su L’Arena di Verona, IL Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova