Italiani si nasce o si diventa? Deve prevalere il luogo della vita o l’identità familiare? Insomma, meglio lo ius sanguinis della discendenza, in vigore dal 1992, oppure lo ius soli, il diritto del suolo per avere la cittadinanza riconosciuta?
Sono interrogativi fuorvianti. Nel mondo i due modelli si equivalgono. In molti Paesi, specie in Europa, s’è adottato il sistema vigente in Italia. In altri, specie nelle Americhe, il riconoscimento della cittadinanza è legato alla nascita. Non c’è un sistema sbagliato e l’altro giusto, anche perché nel tempo entrambi i meccanismi si sono temperati e in parte mescolati, introducendo ciascuno le novità suggerite dalla società che cambia.
Ma pretendere di risolvere il tema dell’identità italiana, cioè della nostra cittadinanza per gli stranieri, a colpi di referendum e passando, oltretutto, da un estremo all’estremo opposto, significa non cogliere il rilievo della questione. O considerare l’italianità un orpello, anziché il tratto fondante, comune e importante di quel che siamo.
L’attuale residenza continuativa di 10 anni, cioè il requisito senza il quale i non italiani non possono ottenere la cittadinanza, sarebbe ragionevole, se la burocrazia borbonica non lo facesse diventare di 14 o 15 anni. Un’eternità nel nostro tempo digitale e supersonico.
Ma il rimedio non può essere passare dai 15 anni, in concreto, ai 5 previsti dal referendum grazie al “taglia e cuci” della legge che quest’istituzione impone. La regolare permanenza di 5 anni è oggi richiesta agli stranieri per avere il permesso di soggiorno: come si fa a equiparare le due cose?
L’errore di chi dibatte con furore ideologico -quasi che lo ius sanguinis fosse di destra e lo ius soli di sinistra-, è di non vedere la realtà delle cose e delle persone. Preferiscono il politicismo.
L’integrazione anche formale di chi non è italiano, non deve partire dall’alto e dagli adulti a colpi referendari di “sì” o “no”. Deve prendere le mosse dal basso, dal milione di minori nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri. Minori già italiani di fatto, ma non di diritto. Bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole, che studiano e parlano, vestono e mangiano, giocano e tifano come i nostri figli e nipoti e loro coetanei. Italiani agli occhi di tutti, fuorché della Legge.
Non serve, dunque, alcuna rivoluzione. E’ sufficiente che il Parlamento introduca due righe all’attuale legge (che è una buona legge, ma ha 32 anni), per stabilire quanto segue: i figli di stranieri di minore età, i quali abbiano frequentato un ciclo scolastico di almeno 8 anni -comunque un periodo congruo-, possono richiedere la cittadinanza attraverso i loro genitori. Possono, ma si può star certi che lo faranno. Perché spesso la grande maggioranza di questi ragazzi e ragazze si sente ed è più italiana degli stessi italiani.
Conciliare l’atto di giustizia con l’interesse nazionale. Un milione di volte.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova