Due attentati in due mesi contro un candidato alla Casa Bianca, e in piena campagna elettorale, suonano negli Stati Uniti come l’allarme definitivo. Stavolta il presunto e mancato omicida è stato arrestato in tempo: tale Ryan Routh, un uomo di 58 anni che s’aggirava armato vicino al campo di golf di Donald Trump, in Florida, mentre l’ex presidente si trovava tra le buche 5 e 6 con un amico e suo finanziatore, Steve Witkoff.
Memori del tentativo di assassinio il 13 luglio scorso, quando una pallottola ferì Trump all’orecchio e il cecchino fu individuato con inescusabile ritardo e poi ucciso, gli agenti dei servizi di sicurezza circondavano i due giocatori a protezione. Finché uno degli agenti, proprio come in un film americano, ha notato a distanza tra i cespugli la canna di un fucile con cannocchiale da puntamento, ha aperto il fuoco in quella direzione inducendo il tiratore a scappare con l’auto nei paraggi.
L’hanno poi ammanettato in un posto di blocco. S’è scoperto che l’uomo era stato arrestato per reati minori, e che ha una visione bellicista: era pure andato a Kiev, dicendo di poter reclutare soldati stranieri per l’Ucraina. Parole a cui le autorità non avrebbero mai dato credito.
Ma intanto riesplode la polemica politica.
“L’attentato contro di me è colpa della retorica di Harris e Biden, linguaggio incendiario”, accusa Trump. Elon Musk, il ricco e brillante imprenditore schierato per Donald, fa un post-choc (che poi cancella dalla sua piattaforma X): “Nessuno prova a uccidere Biden e Harris”. Battuta non riuscita, ammette lui stesso, “io non voglio assolutamente fare quello che hanno fatto”.
Ma il fuoco delle parole, oltretutto espresse non al bar sport, bensì ad alti e così importanti livelli, rivela quanto sia avvelenato anche nel Paese lo scontro fra Donald e Kamala. Che, come fece Biden dopo il primo attentato, ha subito dichiarato: “Sono lieta che Trump stia bene, la violenza non ha posto in America”.
E’ chiaro che i massimi rappresentanti dei due partiti sfidanti, il democratico e il repubblicano, non possano più ignorare il pericolo della violenza già due volte sperimentato. Frutto della patologia criminale e squilibrata di singoli, ossessionati nel voler abbattere il “loro” nemico a colpi di kalashnikov. Questione prioritaria di sicurezza e di polizia.
Ma anche la politica americana può fare qualcosa. Per esempio estirpando l’insulto e la denigrazione dell’antagonista. E’ una pratica di cui anche la vittima Trump non è alieno: ha appena scritto di odiare Taylor Swift, sol perché la cantante è pro Kamala.
Intendiamoci, neanche le elezioni sono “un pranzo di gala”, per parafrasare Mao. Ma Trump versus Harris non è la lotta del Bene contro il Male che entrambi i contendenti, pur con toni, argomenti e atteggiamenti molto diversi tra loro, non smettono di evocare e rinfacciarsi.
Il 5 novembre non arriverà il giudizio di Dio. Semplicemente si voterà per la Casa Bianca.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova