Perché è un interesse nazionale dare la cittadinanza ai minori figli di stranieri e già integrati in Italia

Uomini sull’orlo di una crisi di nervi o di governo? L’interrogativo, molto estivo per la verità, esplode dopo la bella impresa degli Azzurri all’Olimpiade di Parigi -dove anche atleti italianissimi, ma figli di stranieri hanno contribuito alle 40 e splendide medaglie- con la presa di posizione di Antonio Tajani sullo “ius scholae”.

E’ giusto -ha detto il leader di Forza Italia- che i minori nati o cresciuti in Italia da genitori non italiani, e che abbiano frequentato un ampio ciclo scolastico, possano diventare cittadini della Repubblica.

Tajani, ricordiamolo, non è un bolscevico che trama nell’oscurità per mettere in crisi il governo-Meloni di cui lui stesso è vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Semplicemente, ha dato voce al buonsenso generale e prevalente su un tema che non è di destra né di sinistra. Diceva il giornalista Enzo Biagi: “Si può essere a sinistra di tutto, ma non del buonsenso”.

Subito Matteo Salvini ha risposto con un “no” a raffica. La questione “non è nell’agenda del governo, non è nel programma, non è sul tavolo di nessuno”, ha detto il leader della Lega, pure lui vicepresidente del Consiglio e ministro dei Trasporti del medesimo governo. Altri nella Lega hanno aggiunto che qui cova aria di inciucio col Pd -le opposizioni hanno applaudito Tajani- e che si mette in pericolo la stabilità dell’esecutivo.

Attenzione, però, a far diventare “altra cosa”, lo scontro fra i due leader nella maggioranza non sulla metafisica in Aristotele, bensì sulla realtà di un milione di ragazze e ragazzi “stranieri in Patria”.

Se l’argomento -ha ragione Salvini- non fa parte del programma di governo, allora è libera materia del libero Parlamento. L’esecutivo non ne è in alcun modo coinvolto, e perciò non rischia nulla. Oltretutto si parla di diritti, materia attinente alla coscienza, non agli ordini di scuderia.

Ma poi: la Lega ha già forzato sull’autonomia differenziata, costringendo gli alleati a subire una legge impugnata da 4 Regioni davanti alla Corte Costituzionale, e su cui pende la spada di Damocle di un referendum destinato a trasformarsi -se ammesso dai giudici costituzionali- in una sfida pro o contro l’Italia una e indivisibile (ingiustamente, perché il testo non è secessionista, ma il referendum e la propaganda elettorale semplificheranno il tutto per vincere).

Anziché, dopo la problematica autonomia, mettersi di nuovo di traverso pure sulla cittadinanza italiana, Salvini dovrebbe ascoltare quella parte della sua classe dirigente e dell’elettorato di centrodestra che non è affatto ostile all’atto di giustizia.

Ma toccherebbe in particolare al partito di Giorgia Meloni, e a lei come presidente del Consiglio, spiegare ai due uomini litiganti e ai leghisti perplessi l’“interesse nazionale” nel far diventare italiani quelli che italiani lo sono già. Perché, parafrasando, si può essere a destra di tutto, ma non del buonsenso.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova