Sull’onda delle meravigliose “sorelle d’Italia”, che hanno vinto l’oro all’Olimpiade di Parigi, la politica è uscita dal letargo, annunciando di voler mettere mano alla legge sulla cittadinanza. Meglio tardi che mai.
Perché quella squadra di campionesse, molte delle quali nate o cresciute in Italia da genitori stranieri, sono il simbolo di un’eccellenza nella pallavolo, ma pure di almeno un milione di ragazze e ragazzi nelle loro stesse condizioni. Rappresentano la generazione dei “nuovi italiani” che, a differenza di Paola Egonu e Miriam Sylla, Ekaterina Antropova e Sarah Fahr, Loveth Omoruyi (i cognomi non mentono: tutte italianissime con mamma o papà non italiani), sono privi di cittadinanza. Più di un milione di “italiani senza Patria”, perché la burocrazia non riconosce la loro vita reale e quotidiana, né ascolta come batte il loro cuore. Italiani di fatto, ma non di diritto. Senza santi in paradiso, perché non indossano la maglia Azzurra, e perciò sono italiani invisibili.
Ma grazie a Paola, Miriam e a una Nazionale imbattibile e felice, maggioranza e opposizione ora promettono che a settembre torneranno a dirsele fra ius soli e ius sanguinis. Con la sinistra paladina del primo (è italiano chi nasce in Italia, a prescindere dai genitori) e la destra del secondo: può diventare italiano chi ha ascendenze italiane.
Il lettore non si faccia fuorviare: entrambi gli approcci, del suolo e del sangue, sono principi di grande civiltà e nel mondo i Paesi si dividono quasi in parti uguali tra chi applica un criterio e chi l’altro.
Ma per risolvere il “caso italiano” dei minori ancora erranti, bisogna superare l’ideologismo del suolo contro il sangue, e puntare dritti sulla formazione scolastica. Scuola e sport sono i veicoli dell’integrazione.
Dunque, da Giorgia Meloni ad Elly Schlein senza escludere nessuno -neppure il generale Roberto Vannacci-, la politica deve parlarsi, perché può, con un telegrafico emendamento all’attuale e fondante legge sulla cittadinanza del 1992, introdurre la facoltà per chi ha frequentato un certo numero di anni scolastici (per esempio: 8, non pochi) di richiedere, tramite genitori, la cittadinanza. Nasca lo “ius Italiae”, semplicemente.
Sarebbe un atto pragmatico e ragionevole, da non confondere col tema dell’immigrazione né col timore di indebolire l’identità nazionale.
Vale il contrario: con l’iniezione di un milione di nuovi italiani nella società a crescita zero, con l’eventuale e ricco apporto in aggiunta delle culture dei loro genitori (ma la maggior parte di questi ragazzi ha un unico Paese alle spalle: l’Italia), la nostra solida identità può solo rafforzarsi.
E’ un atto di giustizia, ma è soprattutto un “interesse nazionale” riconoscere a chi è già tra noi, parla, veste e vive come noi, d’avere la carta d’identità che gli spetta. Bordata di verde, bianco e rosso e con la dicitura “Repubblica italiana” scritta bene in alto.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova