L’attimo fuggente ha riaperto una polemica che sempre ritorna: all’Olimpiade si va per vincere o per partecipare?
Per un centesimo di secondo, un tempo impossibile perfino da concepire, la nuotatrice Benedetta Pilato è arrivata quarta alla finale dei 100 rana. Quarta, la metaforica medaglia di legno che non consola il primo dei perdenti, mentre i vincitori nuotano nell’oro, nell’argento e nel bronzo.
Subito intervistata in tv e con le lacrime che le scendevano da un viso solcato dalla fatica e segnato dal dolore, Benedetta ha detto, testualmente: “Peccato, mi dispiace, ma le mie sono lacrime di gioia, ve lo giuro, è il giorno più bello della mia vita”.
Il giorno più bello della mia vita essere stata sconfitta per quel maledetto centesimo del nulla, nonostante una gara da campionessa?
Apriti cielo. Le ha risposto Elisa Di Francisca, già atleta della gloriosa squadra italiana di scherma: “Non ho capito niente, ci è o ci fa? E’ assurdo, surreale. Che ci è andata a fare, allora? Allibisco”.
Come si conviene nella Patria che ancora si divide tra Rivera e Mazzola, non capendo che se quei due calciatori avessero giocato insieme sarebbero stati imbattibili pure contro il leggendario Brasile del Messico ’70 (è l’unione che fa la forza e la Patria, non l’eterno scontro tra fazioni), ecco scendere in campo, o meglio, buttarsi in piscina l’ex grandissima Federica Pellegrini, non per caso ribattezzata “La Divina”.
“Lasciamo che Benedetta sogni ciò che vuole”, l’ha difesa. Però dall’altra parte della barricata, la barricata di chi, se piange, piange non di gioia per aver partecipato e dato il massimo, ma di tristezza per non aver vinto, si schiera un altro monumento allo sport, Valentina Vezzali (che nella vita di fiorettista ha pianto poco: nove medaglie olimpiche, di cui ben sei d’oro). Valentina ha detto, semplicemente, che lei a perdere non ci sta, “neanche a briscola”. A buon intenditor.
E così a sua insaputa il barone Pierre de Coubertin, fondatore dei Giochi moderni -prima edizione nel 1896 ad Atene- e celebre per un pensiero che in realtà non ha elaborato lui (“l’importante non è vincere, ma partecipare”; frase presa a prestito da un discorso di un vescovo anglicano, ma ormai attribuita al barone francese per sempre), è tornato d’improvvisa e imprevista attualità.
Nel frattempo la troppo dura Di Francisca ha telefonato alla troppo tenera Benedetta per scusarsi del tono e delle parole (non, però, della libera e molto diffusa opinione espressa). Bel gesto tra campionesse, perché qui non è in ballo alcuna persona con nome e cognome, ma un principio generale che vale per tutti: vincere o partecipare? E poi come si fa a giudicare lo sfogo di Benedetta Pilato, nuotatrice di impegno e di talento? Che cosa voleva realmente esprimere con quel pianto di felicità per aver perso, ma avendo ritrovato la sua miglior condizione, e trovandosi nell’Olimpo tra i più forti al mondo?
Tu chiamale, se vuoi, emozioni. E alle emozioni non si comanda.
Ma il redivivo de Coubertin non creda d’aver ragione, più di cent’anni dopo, sol perché, in suo nome, Benedetta ed Elisa, Federica e Valentina si sono confrontate all’arma bianca delle parole.
Qualche decennio dopo, dal Sudamerica è sbucato un rivoluzionario, tale Ernesto Guevara de la Serna, detto il Che, che all’universo ha regalato un pensiero diverso, anzi, opposto: ¡Hasta la victoria siempre!, fino alla vittoria sempre!
Si dirà: quel matto mica si riferiva allo sport.
Ma il concetto che qui si è cercato di approfondire, non riguarda soltanto l’Olimpiade. E comunque per il Che è tutta farina del suo sacco. Lui non ha citato, cioè copiato, come de Coubertin, da un vescovo anglicano che nessuno ricorda più (si chiamava Ethelbert Talbot).
Vincere o partecipare? A ciascuno la sua risposta.
Ma fino alla vittoria, naturalmente.
Pubblicato sul quotidiano Alto Adige