Ursula 2 la vendetta? È il preoccupante interrogativo che aleggia nella politica italiana dopo la riconferma di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione europea, nonostante il voto contrario espresso dagli eurodeputati di Fratelli d’Italia su precise indicazioni di Giorgia Meloni, cioè del capo del governo della Repubblica italiana.
Ora che si apre la partita sui commissari dei 27 Paesi che per cinque anni dovranno affiancare il lavoro della rieletta presidente, si temono ripercussioni negative per l’Italia, che richiede un dicastero economico degno del suo peso (seconda industria manifatturiera e terza economia del continente, oltre che Paese fondatore dell’Ue), e un vicepresidente esecutivo.
Ma siamo più forti o più deboli con Ursula von der Leyen chiamata a scegliere i commissari e ad attribuire loro i ruoli tecnici?
Se si ragionasse sull’onda del voto dell’Europarlamento, dove ben due dei tre partiti del governo italiano (Fratelli d’Italia e Lega) hanno votato contro Ursula, il dispetto è assicurato. E a poco servirebbero i voti invece favorevoli espressi da Forza Italia guidata da Antonio Tajani, che è pur sempre vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, così come i buoni rapporti personali che Ursula e Giorgia hanno costruito da quasi due anni di incontri, viaggi e attività politico-istituzionale condivisa.
Ma proprio perché la riconfermata presidente non ha alcun debito politico nei confronti di Giorgia Meloni, e per far girare al meglio la macchina governativa europea all’insegna degli ambiziosi obiettivi indicati nel suo orgoglioso intervento all’Europarlamento, Ursula von der Leyen ha tutto l’interesse non già a punire, bensì a valorizzare il ruolo dell’Italia. Anche per dare una lezione all’incomprensibile no di Giorgia Meloni, che in precedenza si era astenuta con benevolenza sulla nomina di Ursula decisa dal Consiglio europeo.
D’altra parte, nessun pregiudizio la riconfermata presidente ha mai finora dimostrato per l’Italia, chiamando di recente nientemeno che Mario Draghi a elaborare un decisivo rapporto sulla competitività europea.
Né si può giudicare “di sinistra” il programma della, oltretutto, “popolare” von der Leyen, che come avviene in questi casi, in realtà si è rivelata ecumenica, aprendo ai verdi sul cosiddetto “green deal” (e infatti i verdi l’hanno votata), ma anche ai conservatori sull’immigrazione, sul Mediterraneo e sulla sicurezza alle frontiere (ma destra e Lega non l’hanno votata).
A volte la coerenza politica rischia di trasformarsi in incoerenza istituzionale e di confondere i piani tra leadership europea – Giorgia Meloni è il punto di riferimento del gruppo dei conservatori a Strasburgo –, e la presidenza del Consiglio in Italia. Un corto circuito che poteva essere evitato senza inutili ripicche politiche.
Ma che tra persone di buon senso e nell’esclusivo interesse dell’Europa non dovrebbe e non dovrà compromettere il buon nome e le buone ragioni dell’Italia.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova