Per l’Italia oggi ricorrono i cent’anni dell’inizio della Grande Guerra 1915-‘18. Ma non sono cent’anni di solitudine. Grazie all’immane sacrificio di un’intera generazione, soprattutto giovani, che si immolò tra la fame, il freddo, le malattie della trincea per quasi quattro anni, gli italiani si liberarono per sempre dal dominio austriaco degli Asburgo. Coronarono i sogni d’indipendenza rimasti incompiuti dopo il Risorgimento. Si affratellarono al momento drammatico del fronte. Per la prima volta nella storia tutti insieme, ragazzi del nord e del sud, figli dei potenti e figli del popolo, gente che a stento parlava l’italiano e irredentisti colti come Cesare Battisti, uno dei tanti eroi spesso dimenticati dall’indifferenza del nostro tempo. In poche parole: erano i nostri nonni, perché ogni famiglia ha avuto qualcuno “partito per la guerra”. Ma oggi, 24 maggio ancor più “radioso” di quello di allora, perché maggio di pace per tutti in un’Europa finalmente riconciliatasi con se stessa, le istituzioni della Repubblica italiana ricordano ovunque quell’inizio che fu doloroso e al costo della stessa vita per seicentomila italiani (più un milione tra feriti e mutilati). Ricordano la libertà conquistata. Un omaggio alla memoria che ogni Paese coinvolto nel conflitto ha saputo sottolineare con forza e con dolcezza. Portando fiori sulle tombe e sui monumenti dei Caduti, sventolando le bandiere in segno di riconoscenza, proclamando minuti di silenzio per non dimenticare. Ogni nazione ha avuto il suo lutto collettivo in quella orribile guerra. Ma ogni nazione sa che cos’è il tesoro della memoria: un civile e perpetuo atto di gratitudine per gli altri, per quelli che non ci sono più. Anche il nostro governo e il Quirinale oggi sono impegnati in questo rito del ricordo, che è la radice del futuro. Eppure due “governatori” della Repubblica italiana, l’alto-atesino Arno Kompatscher e il trentino Ugo Rossi si sono rifiutati del gesto semplice e amorevole che il governo aveva loro richiesto: esporre la bandiera italiana negli edifici pubblici. A Trento, proprio la patria di Cesare Battisti, la bandiera nazionale verrà issata a mezz’asta “per rispetto ai popoli dell’Euregio”, ha provato a spiegare il signor Rossi. Come se il Tricolore fosse un simbolo da evitare, da dimezzare, da esibire sì, ma non troppo. Come se il “rispetto” dovesse valere più per l’Austria allora sconfitta (e con la quale i rapporti di oggi sono eccellenti) che non per gli italiani che hanno dato la vita per l’Italia vittoriosa. Il rifiuto istituzionale della bandiera mortifica il futuro e non solo la memoria.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi