Era il movimento d’opposizione più nuovo di tutti, nato fra quattro amici al bar, anzi, dal notaio, per scuotere la politica e perorare la causa dell’autonomia lombarda. Quarant’anni dopo quel 12 aprile 1984, la Lega è diventata il partito più vecchio e si ritrova al governo con l’intento di cambiare l’Italia.
Tra l’ambizione regionale e la svolta nazionale, tra il fondatore Umberto Bossi e l’attuale segretario Matteo Salvini che ha portato la Lega dal 4% al massimo storico (il 34,3 alle europee del 2019) commettendo, nel contempo, l’harakiri, anch’esso storico, di abbandonare il primo esecutivo-Conte di cui lui era il vero “comandante”, insomma fra le battaglie per il Nord e quella per costruire il Ponte sullo Stretto, è passata un’intera generazione di politica italiana.
Della quale il partito di Alberto da Giussano, del dio Po, della fantomatica Padania e altri miti fragili emersi e svaniti nel tempo, è sempre stato protagonista. Sia nella versione dell’“uno contro tutti”, quando Bossi si batteva con piglio di sinistra e riconoscimento da quelle parti (“la Lega è una costola del movimento operaio”, fu la celebre incoronazione di Massimo D’Alema), sia nella più duratura versione di destra, inaugurata prima con l’accordo politico-elettorale e poi con la partecipazione leghista ai quattro governi di Silvio Berlusconi (ribaltone compreso nel primo).
Archiviate la provocazione anti-italiana della secessione e le coccole interessate della sinistra, e superate le inchieste giudiziarie sul partito che portarono Roberto Maroni, per un periodo segretario, ad agitare le scopa come messaggio di voler fare pulizia d’ogni scandalo, la Lega ha scelto il pragmatismo. Che, specie al Nord, si traduce nella libertà di intraprendenza per le sfide europee del lavoro. E che nel Paese significa sicurezza. Dunque, il percorso di una Lega nazionale, pur con l’autonomia differenziata nel cuore, così da agevolare l’operosità della Lombardia e del Veneto, regioni-locomotiva d’Italia.
Salvini oggi si trova a interpretare queste esigenze, indebolito, tuttavia, dai suoi errori politici (si veda l’oscillante posizione su Vladimir Putin, ieri ammirato, oggi finalmente scaricato) e dalla concorrenza casalinga di Giorgia Meloni e Antonio Tajani. Sono gli insidiosi alleati di governo, che pescano nello stesso elettorato e con gli stessi argomenti, ma con toni e atteggiamenti molto diversi. Saranno le prossime europee a stabilire gli equilibri nella maggioranza (la Lega è al 9%) e a giudicare il ruolo di Salvini, contestato dalla vecchia guardia bossiana. “Alla Lega serve un nuovo leader”, dice il senatùr, come Bossi era chiamato ai suoi tempi.
Ma oggi lo scenario economico e la grave situazione internazionale impongono anche alla Lega di cambiare di nuovo. Da Roma ladrona al governo a Roma, dal federalismo al sovranismo è già storia di ieri.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova