Secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno, l’anno scorso sono sbarcati in Italia 158 mila migranti. Il 50% in più rispetto all’anno precedente, addirittura il 130% in più rispetto al 2021.
E’ facile immaginare che questi numeri siano, in verità, sottostimati. Comunque rappresentano un fenomeno, il fenomeno di chi lascia la propria terra con la speranza di una vita migliore, destinato a durare a lungo e a pesare sull’Europa.
Ebbene, la grande e irrisolta questione dell’immigrazione in Italia, non ha nulla a che spartire con la realtà di un milione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti nel nostro Paese da genitori stranieri e privi della cittadinanza italiana. Questi “nuovi italiani”, come sono stati battezzati i minorenni da anni qui residenti, non possono e non debbono essere confusi con le ondate di sbarchi con o senza controlli sulla Penisola.
E’ un equivoco che è stato creato ad arte e con demagogia per impedire di affrontare con serenità e buonsenso il problema di giovani che vivono nella trasparente legalità, frequentano le nostre scuole, parlano l’italiano -o quassù anche il tedesco- come noi e meglio di noi, vestono e mangiano all’italiana, tifano per le squadre di Serie A e per la Nazionale.
Sono italiani di fatto, ma non di diritto. Con tutte le penose conseguenze del caso, sia in termini di vita concreta (mancate opportunità di studio, lavoro o carriera), sia sotto l’aspetto personale e familiare: ma che Paese è quello che non riconosce la mia identità e mi pone in una situazione di costante disagio in confronto ai miei amici, conoscenti, concittadini? In confronto a quello che io sono e mi sento: italiano.
Si pensi, inoltre, che quasi il 70% del milione di “non cittadini” è nato in Italia. Non hanno altra Patria al di fuori della nostra e loro. Eppure, per la legge essi continuano a essere “stranieri in Patria”.
Il Parlamento ha provato a legiferare due volte sull’argomento, introducendo la prima il cosiddetto “ius culturae” (ottobre 2017, testo approvato dalla Camera, ma arenatosi al Senato) e la seconda lo “ius scholae”, fermatosi anch’esso alla Camera nel 2018.
In pratica, in entrambi i casi si legava l’acquisizione della cittadinanza a un ciclo scolastico di almeno 5 anni. Un po’ poco, visto che l’istruzione obbligatoria per gli italiani è di dieci anni, cioè fino ai 16 anni. E anche questo approccio demagogico, tipico di una certa sinistra finto buonista, ha contribuito a rinfocolare la demagogia opposta, tipica del radicalismo leghista ostile a qualsivoglia modifica della legge sulla cittadinanza.
E così, tra chi voleva quasi regalare la cittadinanza e chi si rifiuta di regolarla, l’esito è uguale a zero: quel milione di italiani-non-italiani resta in attesa che la Repubblica faccia un fischio e dica loro che da oggi anch’essi sono della partita.
L’opposto ideologismo sinistra-Lega e l’astrusa discussione intellettuale se sia meglio lo “ius sanguinis” in vigore in Italia e principalmente in Europa oppure lo “ius soli” prevalente nelle Americhe, ostacolano la soluzione del problema. Conseguire la cittadinanza per discendenza (ius sanguinis) o perché si è nati sul territorio dello Stato (ius soli) sono due principi di alta civiltà. Nel primo caso si consente all’italianità di profumare in qualunque parte dell’universo. Anche chi nasce nel Polo Nord, ma è figlio o nipote di italiani può, se lo desidera e lo richiede, essere italiano. Si lega l’identità al valore più bello della vita: l’amore, l’amore per l’Italia.
Nel secondo caso (ius soli) si constata l’identità della persona facendola coincidere con lo Stato in cui si nasce, ci si forma, si pagano le tasse e si vive l’esistenza. Si lega l’identità alla verità dei fatti: il realismo.
Senza toccare lo “ius sanguinis”, è ora che il legislatore introduca in aggiunta lo “ius Italiae”, riconoscendo la cittadinanza a chi, nato o arrivato bambino nel nostro Paese, si forma nella nostra scuola, che è obbligatoria anche per i figli di stranieri. Un ciclo di 8 anni di frequenza -per esempio- impedirebbe ai demagoghi delle due sponde di gridare al lupo cattivo.
Faccia come crede, il legislatore. Ma faccia. Non c’è cosa più ingiusta e paradossale che vietare a un italiano di essere tale in Italia e nel mondo.
Pubblicato sul quotidiano Alto Adige