Doveva essere una guerra lampo, la “guerra dei tre giorni”, come l’immaginava Putin, che l’ha scatenata. Giusto il tempo di consentire ai suoi soldati d’arrivare a Kiev, deporre l’“imbelle” Zelensky e annettersi, con le stesse modalità violente e illegali già sperimentate nel 2014 con la Crimea, buona parte dell’Ucraina conquistata a passo di passeggiata.
Invece, per l’ingordo Golia alla facile caccia di Davide, la guerra s’è impantanata e trasformata in un nuovo Vietnam. Due anni di missili, di una sanguinosa linea di fronte lunga mille chilometri, di massacri di civili e di bambini deportati -per i quali Putin è inseguito da un mandato di cattura come criminale di guerra dalla Corte penale internazionale dell’Aja-, non hanno piegato l’amor di Patria degli ucraini.
Davide è ancora lì che resiste, aiutato dai 144 miliardi di euro che l’Unione europea, svegliata dal calcolo geopolitico e scossa da un minimo di coscienza (se oggi tocca a Zelensky, domani può toccare a me), ha stanziato, affinché gli aggrediti possano almeno difendersi. Altri 67 miliardi sono arrivati dagli Stati Uniti, specie come sostegno militare.
Il resto è cronaca, cronaca orribile e quotidiana di un’invasione in violazione di qualsivoglia principio di diritto che, dal primo e nefasto giorno del 24 febbraio 2022, non va né avanti né indietro. “Solo” l’ulteriore 11% del territorio ucraino è stato occupato dai russi dall’inizio del conflitto (oltre al 7% che era stato già preso in precedenza) al prezzo, secondo stime attendibili, ma non immuni dall’incontrollabile e reciproca propaganda di guerra, di 315mila soldati tra feriti e morti. E 190 mila sarebbero quelli ucraini colpiti o caduti a difesa della libertà (e ben 6 milioni e mezzo i rifugiati all’estero).
Non è un caso, se la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha voluto inaugurare proprio a Kiev il G7 quest’anno presieduto dall’Italia. Un atto più che simbolico per ribadire l’appoggio dell’Occidente al presidente Zelensky e alla sua gente logorata dalla guerra, eppur indomita.
In realtà, tutti hanno capito, specie dopo la fine brutale che il regime ha riservato ad Alexei Navalny, il principale oppositore di Putin, che c’è un modo solo per arrivare alla tanto auspicata “pace giusta”: rispettare il volere degli ucraini assaliti, che non intendono cedere, finché i russi non si saranno ritirati (o saranno stati sconfitti, secondo Zelensky) dall’Ucraina.
Due anni dopo, il mondo assiste impotente. Ma per gli occidentali l’impotenza non è sinonimo di neutralità. Il fallimento della diplomazia e gli inascoltati appelli del Papa per giungere almeno a una tregua, alimentano il pessimismo: chissà quanti morti e quante distruzioni ancora. Ma la consapevolezza dell’Occidente e l’eroica resistenza degli ucraini autorizzano a sperare che Putin non otterrà quel che vuole.
Come non l’ha ottenuto né dopo tre giorni, né dopo due anni.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova