Una volta i nonni dicevano ai loro nipoti birichini di volerli mettere “a pane e acqua” come punizione per le marachelle compiute. Era un modo per evocare con finta severità quanto, invece, accadeva sul serio ai detenuti delle prigioni ai primi dell’Ottocento, costretti ad accontentarsi del poco cibo a disposizione e a subire un’ulteriore sanzione nella sanzione: alimentarsi con l’essenziale senza pesare sulle casse pubbliche.
Nell’era digitale che ha da tempo accolto il significato rieducativo e non solo deterrente della pena, è ancora possibile sperimentare come vivevano intere generazioni di reclusi in epoche ben più dure. E di sperimentarlo non col virtuale, bensì col reale: due ore a pane e acqua nella “cella meditativa numero 1”, com’è stato ribattezzato il posto, angusto e senza finestre, un tempo riservato ai condannati più pericolosi o ribelli, e perciò pure incatenati, nell’ex colonia penale più grande d’Europa.
Si trova ben conservata nel Sud della Sardegna a Castiadas, non lontano dalla celebre e magnifica per bellezza di mare e spiagge, e per il modo di fare discreto e dignitoso dei sardi, località “Costa Rei”.
Quel “rei”, attenzione, non è un italianismo dello spagnolo “rey”, cioè re, bensì è un doveroso omaggio proprio ai rei, vale a dire ai colpevoli, che a migliaia (più di 36 mila) popolarono questa grande prigione agricola e ne bonificarono il territorio dal 1875, anno di nascita, al 1956, anno di chiusura.
Dunque, per tornare a respirare quell’aria galeotta almeno per un paio d’ore (tranquilli: senza palla al piede, unica reminiscenza ora bandita), basta prenotarsi al numero 348/5182463 o scrivendo all’indirizzo della direttrice annapalita@gmail.com Anche ora dopo le feste di Natale, quando la voglia di riflettere sulle cose importanti della vita come la libertà, per molti si coniuga con interrogativi sulla fede cristiana, che si nutre proprio di pane, acqua e vino.
Al “turismo esperienziale”, come viene definito, sono ricorsi in tanti, a cominciare da un importante magistrato di cui Anna Palita, la già citata direttrice dell’ex colonia restaurata e visitabile come un museo a cui ha dedicato se stessa, non riferisce il nome, bensì le poche parole da lui pronunciate con animo turbato dopo la detenzione volontaria nella cella numero 1: “Adesso a fare una sentenza ci penserò molto di più”.
Non pensava, invece, che sarebbe passato alla Storia quel primo gruppo di 18 “forzati”, 5 guardie e 2 impiegati che l’11 agosto 1875 sbarcava a Cala Sinzias, altra spiaggia adesso rinomata, da un barcone da guerra in un luogo spopolato e incolto, e a lungo preda anche della malaria e di epidemie di peste. Fu l’avanguardia dei condannati soprattutto per reati minori, a cui “La petite Cayenne”, la piccola Caienna, come veniva soprannominata dai francesi, era destinata. Di preferenza colpevoli che fossero abili falegnami e bravi muratori.
Di sbarco in sbarco su un’area estesa per quasi 13.200 ettari all’interno della quale gli stessi reclusi innalzarono la possente struttura che li avrebbe ospitati, furono realizzati dormitori per 600 detenuti e alloggi per 130 agenti di custodia.
Ma nella Caienna a cielo aperto c’era poco da sorvegliare o da scappare. Come scrisse uno dei tanti direttori della colonia, “questo modo di vita ricostruisce una nuova struttura spirituale, fa rinascere la bontà, la voglia di dimenticare il delitto. Qualcuno è fuggito, ma è tornato spontaneamente”. Tornavano anche prefetti e autorità per osservare la colonia al lavoro. Mussolini più volte (con Claretta Petacci).
Nel luogo più lontano d’Italia, dove anche i peggiori delinquenti in circolazione potevano finire, purché avessero già scontato due terzi della pena e con certificato carcerario “di assoluta buona condotta” maturata, prendeva corpo una filosofia della riabilitazione: perfino i condannati a trent’anni, lavorando per sé e per la comunità avevano una seconda possibilità di espiare la vita sbagliata. Tant’è, che quando la voce sulla Caienna al sole e al vento ha cominciato a spargersi dietro le sbarre, i condannati per delitti efferati e senza domani chiedevano d’essere trasferiti proprio lì, alla colonia di Castiadas. Dove ai reclusi analfabeti, moltissimi, s’insegnava a leggere e a scrivere a e tutti un mestiere.
Chi vorrà rivivere in due ore tante condanne “a fine pena” -ossia con la prospettiva della rieducazione per il reinserimento- decretate negli 81 anni in cui la colonia ha funzionato, potrà scoprire storie di assassini, stupratori, autori di “delitti d’onore”. Ma pure di oppositori in epoca fascista rinchiusi nelle celle punitive per fiaccarne fisico e spirito.
Qui passò del tempo Alessandro Serenelli, che nel 1902, diciannovenne, tentò di violentare e finì per uccidere a colpi di punteruolo l’undicenne Maria Goretti. Diventando poi, dopo aver fatto 27 anni di carcere e chiesto perdono alla mamma della vittima, lui un devoto religioso e lei, dal 1950, una santa e martire della Chiesa cattolica.
Ma il visitatore potrà anche sapere delle insurrezioni fatte o tentate, perché non tutto era rosa e fiori tra detenuti e agenti. Potrà cogliere il rapporto non sempre facile tra la popolazione locale e i condannati spesso forestieri, cioè provenienti dal “continente”, come i sardi indicano il resto d’Italia. Potrà, infine, constatare che l’ex colonia era un centro del centro del paese con ospedale, farmacia, ufficio postale e la chiesa di San Basilide vicini alla villa del direttore.
Ottantun anni di storia e di storie portati bene per disinnescare il male, secondo i giudizi e pregiudizi regnanti nelle varie epoche. Ma i tempi cambiano e in due ore si può oggi rivivere il tempo che non c’è più.
Pubblicato sul quotidiano Alto Adige