Dalla Cop28, acronimo che identifica l’annuale conferenza dei Paesi sottoscrittori della convenzione Onu sui cambiamenti climatici, arriva una sorpresa. Che non è l’impegno preso al vertice di Dubai da una ventina di Paesi -tra cui Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna- di triplicare l’energia nucleare entro il 2050, bensì la mancanza di reazioni indignate o indigeste a fronte di una strategia sempre più universale e diretta in un’unica direzione: il rilancio e il ritorno all’atomo quale più solida, pulita ed economica risorsa per il mondo a caccia di alternative al petrolio, al carbone e al gas.
«Non si può arrivare a zero emissioni nette nel 2050 senza un po’ di nucleare, così come non ci si può arrivare senza un certo uso della cattura, dell’utilizzo e dello stoccaggio del carbonio», ha spiegato con pragmatismo John Kerry, inviato speciale Usa per il clima.
La novità certifica la fine della “sindrome Chernobyl”, il disastro della centrale nucleare del 26 aprile 1986 nell’allora Urss causato dall’incuria del personale mal addestrato, dall’impianto obsoleto e dalla gestione incompetente e oscura dell’incidente ad opera del regime comunista. Un’esplosione, la più grave nella storia nucleare, che provocò morti, feriti, perduranti radiazioni e lo spavento universale. Ma spavento soprattutto nell’opportunistica classe politica italiana. Che si mostrò incapace di spiegare e difendere la via del nucleare pur perseguita anche dal nostro Paese con un livello di ricerca nella fisica, ingegneria e industria tra i più elevati in Europa. Eppure, i referendum della paura nel 1987 portarono addirittura all’abolizione del nucleare “italiano”, anche se nessuno dei tre quesiti chiedeva l’abrogazione né la chiusura degli impianti.
Quasi quarant’anni dopo, l’evidenza delle rinnovabili del tutto insufficienti per il fabbisogno nazionale e di un nucleare nel frattempo diventato “di ultima generazione” (circa 440 centrali nel mondo sono state progettate dopo il 2000; oltre 100 reattori nella sola Europa producono un terzo dell’energia elettrica), inducono a un naturale ripensamento all’insegna del realismo, del costo economico e ovviamente della sicurezza: l’incidente giapponese di Fukushima nel 2011, provocato da terremoto e maremoto, impone il dovere di prevedere l’imprevedibile.
Ma ora la stessa Germania riflette sulla decisione di rinunciare al nucleare presa in un momento di ideologismo verde. Perché oggi persino in una parte della politica e cultura verde europea il nucleare non è più un tabù, come lo è stato nella lunga stagione post-Chernobyl. Le energie dal sole e dal vento purtroppo non bastano per il mondo in cammino, che non può vivere nella paura, ma nel coraggio. Il coraggio della verità dei fatti e della scienza, dell’economia e del clima, preservando il pianeta e la saggezza.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova