Sembra un paradosso, ma è l’implacabile verità dei fatti. Proprio il governo che aveva fatto della lotta all’immigrazione illegale una delle sue rivendicate diversità rispetto agli esecutivi che l’avevano preceduto, oggi si ritrova a fare i conti con un mare -letteralmente- di arrivi fuori da ogni controllo. Lampedusa ha registrato il primato di 6.000 sbarchi in un giorno solo. “L’apocalisse”, come l’hanno battezzata gli abitanti dell’isola, che hanno fatto dell’accoglienza un vanto da poter esibire con orgoglio -loro e nostro- al mondo intero.
Succede che la chiusura dei porti invocata in passato da Matteo Salvini o l’accordo italo-europeo siglato nel presente da Giorgia Meloni in Tunisia, così come gli ipotizzati blocchi navali o la promessa di perseguire i criminali scafisti nel Mediterraneo, non abbiano prodotto i risultati attesi per almeno due ragioni.
La prima è che l’esodo quotidiano di chi rischia la vita sui barconi-barchette, non è frutto di condizioni socio-politiche o del mare calmo o in tempesta. È, invece, un fenomeno storico, geografico e soprattutto umano con cui l’Occidente dovrà confrontarsi per anni.
Nessuna polizia di alcuna frontiera potrà mai fermare il sogno della disperazione di chi fugge. Potrà e dovrà imparare a governarlo.
In secondo luogo, la perdurante impossibilità di gestire con rigore e compassione i flussi dall’Africa, dipende dalla colpevole irresponsabilità dell’Unione europea, che si ostina a lasciare ai Paesi di prima accoglienza, e perciò all’Italia in particolare, il compito di sbrigarsela da sé. E poi agli occhi dell’indifferenza dell’Ue, noi paghiamo anche la “colpa” -questa sì paradossale-, di essere ospitali, cioè di non controllare i confini coi manganelli come in Francia, né di bloccare i migranti come in Germania. Tutte scelte dal cinico sapore elettorale (tra pochi mesi si vota in Europa), basate sul pretesto di un presunto “non rispetto” di accordi da parte di Roma. Ma l’unico accordo che scotta, è l’anacronistico sistema di Dublino, fonte iniqua che penalizza l’Italia oltre ogni ragionevolezza.
E allora il governo-Meloni, avendo constatato quanto siano impotenti i proclami a fronte di un intero continente, quello africano, in movimento, ora dovrebbe cambiare strategia: la questione non si risolve a Tunisi, ma a Bruxelles. I nostri interlocutori principali sono gli europei, da scuotere con ogni mezzo politico e giuridico.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi